sabato 19 marzo 2016

CAOS LIBICO

Due articoli presi da Senza Soste(http://www.senzasoste.it/internazionale/ecco-come-l-isis-minaccia-gli-interessi-italiani-in-libia e http://www.senzasoste.it/nazionale/renzi-e-la-libia-il-dramma-di-una-avventura-coloniale-ma-non-troppo )che parlano di petrolio,Libia e governo italiano che ancora non sa se essere dentro una guerra o subirne le sorti dalla parte degli altri partners internazionali.
Perché l'Italia,ovvero l'Eni,ha interessi prioritari nell'ex colonia africana con milioni di Euro investiti e da riportare a casa concentrati in giacimenti e raffinerie,sempre a rischio visto il fragile governo libico che sulla carta vuole che questi rapporti proficui per entrambe le parti proseguano.
Gli articoli scritti a ridosso della morte dei due italiani ostaggi(http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2016/03/la-gioia-e-il-dolore.html )raccontano anche delle trame internazionali e del premier Renzi che fa gli interessi,come al solito,delle multinazionali e delle imprese italiane come la già citata Eni oltre alle ingerenze Isis nelle varie tribù presenti sul territorio.
Ricordando che per ora i libici come ai tempi del colonialismo con la figura leggendaria del partigiano Omar al Mukhtar(http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2009/06/omar-al-mukhtarpartgiano.html )si sono sempre fatti beffe di noi senza dimenticare il Rais che dalla data della sua morte è cominciato un casino senza fine.
 
Ecco come l’Isis minaccia gli interessi italiani in Libia.
 
L'analisi del ricercatore Luca Longo
 
Dum Romae consulitur. Mentre a Roma si discute, come scriveva Tito Livio parlando della situazione militare nordafricana del 219 a.C., Isis continua l’offensiva in Libia.
Il sedicente Califfato sta proseguendo la sua azione di guerriglia volta a logorare le difese dell’ancora tutt’altro che consolidato governo libico. La sua strategia, già discussa qui, rimane immutata: concede in franchising il proprio marchio a numerose tribù di predoni che si muovono indisturbate nell’enorme area che va dal Sahel alla Nigeria fino alla costa libica.
Queste ultime, in cambio di una formale adesione alla causa apocalittica dichiarata da Abu Bakr al-Baghdadi, possono considerarsi in stato di tregua con le bande rivali ed effettuare scorribande fregiandosi del prezioso marchio sul quale Isis ha pesantemente investito con una campagna multimediale tanto capillare quanto truculenta.
L’estrema eterogeneità di queste bande è l’elemento caratterizzante tanto della loro forza quanto della loro debolezza: sono virtualmente imprendibili, potendosi muovere indisturbate su un territorio immenso, ma sono poco coordinate. Pertanto non possono permettersi scontri aperti – come le consorelle in Siria e Iraq – ma si limitano ad azioni di guerriglia volte a demolire le capacità produttive e organizzative libiche e, quindi, minando alla base gli sforzi interni ed internazionali per ridare un governo riconosciuto al territorio precipitato nel caos con la deposizione di Muammar Gheddafi.
L’efficacia della guerriglia, le precarie condizioni in cui versano le istituzioni governative locali e – non ultima – la sempre meglio organizzata offensiva contro le roccaforti del Califfato in Iraq e in Siria, ha portato la multinazionale del terrore a trasferire proprio qui la propria sede amministrativa.
Di pochi giorni fa il blitz contro le infrastrutture governative della città di Sabratha, sulla costa occidentale. Qui i predoni sono riusciti a seminare il panico, decapitare 12 soldati, ucciderne altri 7 e ritirarsi prima di essere respinti. Questo attacco aveva l’evidente scopo di indebolire il controllo governativo proprio nella zona ad ovest della città. L’area, sotto il controllo delle bande, costituisce il terminale di raccolta ed imbarco per il traffico di rifugiati che cercano di arrivare via mare in Italia.
Ma la maggior parte degli attacchi ha l’obiettivo di minare l’infrastruttura petrolifera libica e, in questo modo, colpire sia la principale fonte di ricchezza del Paese sia gli interessi nazionali italiani.
Il 2015, secondo il World Oil and Gas Review, è stato l’anno peggiore per l’industria energetica libica dalla guerra civile del 2011: solo 400mila barili di petrolio al giorno (le potenzialità produttive potrebbero toccare i 2 milioni di barili al giorno) e di questi è riuscita l’esportazione di soli 250mila barili al giorno.
Intanto il governo italiano sta “agendo su più fronti”. O meglio, alterna dichiarazioni ad azioni concrete più contraddittorie.
Lasciando stare le prime, ormai piuttosto circonvolute, e passiamo ad analizzare i fatti.
A terra, le infrastrutture petrolifere – specialmente nell’area tra Zuwara e Sabratha – sono da mesi presidiate da forze speciali.
Di fronte alle coste, la Marina Militare si trova già in azione con le navi dell’operazione Mare Sicuro a protezione degli interessi nazionali: le piattaforme offshore ed il gasdotto Greenstream.
In Italia, le forze speciali italiane pronte all’impiego sono i paracadutisti della Folgore, le forze speciali Comsubin e Col Moschin, che da tempo si stanno addestrando per un’emergenza in Libia (il Corriere della Sera racconta oggi che “una cinquantina di incursori del Col Moschin dovrebbero partire nelle prossime ore” per il Paese nordafricano, per aggiungersi “alle unità speciali di altri Paesi, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, che già da alcune settimane raccolgono informazioni e compiono azioni riservate” nell’ex Regno di Muammar Gheddafi. E che il nostro servizio segreto per la sicurezza esterna, l’Aise, potrebbe “dirigere le operazioni di unità speciali militari italiane in Libia”, secondo “una nuova linea di comando… “decisa con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri adottato il 10 febbraio”.). Questi corpi speciali sarebbero supportati da cacciabombardieri Amx, aerei C130 per il trasporto di mezzi e truppe sotto la protezione dei nostri elicotteri.
La piattaforma autorizzativa parte dalla Legge 198 approvata a novembre 2015: permette alle unità speciali di agire con le stesse regole di ingaggio dei servizi segreti ma solo per missioni militari con ruolo di supporto, a richiesta delle autorità libiche. Cioè a richiesta del governo di unità nazionale libico che, appena insediatosi, dovrà chiedere formalmente l’intervento delle Nazioni Unite per stabilizzare il Paese. Il Consiglio Supremo di Difesa il 26 febbraio ha definito la strategia di intervento sulla base di questa legge.
Intanto, i droni Predator della base pugliese di Amendola sorvolano da mesi il territorio libico “esclusivamente per compiti di ricognizione”.
Da pochi giorni, la sezione sotto controllo americano della base navale di Sigonella è autorizzata a fare decollare droni armati statunitensi. Ma il governo italiano dovrebbe avere il diritto di autorizzare ogni missione armata e limitarne l’azione “solo a scopo difensivo”.
Infine, da mesi i Tornado italiani partono da Trapani e dal Kuwait per illuminare i bersagli in Siria e in Iraq che poi vengono colpiti da aerei di altre nazionalità.
Le esitazioni formali italiane sembrano dettate da una triplice motivazione: non si vogliono scatenare le opposizioni interne in caso di vittime civili libiche o di perdite militari italiane, si vuole evitare a tutti i costi di impantanarsi in una escalation verso azioni militari di vasta scala su un territorio così immenso, si vogliono evitare ritorsioni di Isis contro le infrastrutture e il personale italiano in Libia e, ancora di più, atti di terrorismo sul nostro stesso territorio.
Comprensibilissime e più che giustificate le prime due motivazioni, ma la terza non sembra molto fondata. Ormai è difficile sostenere che il nostro Paese non si impegna militarmente e sperare che, grazie a queste dichiarazioni, non diventi un bersaglio. Volendo definire una data, l’Italia è entrata ufficialmente in guerra con Isis nel 2014.
Nell’agosto di quell’anno, infatti, dalle gallerie bunker scavate sotto la base della Marina Militare sull’Isola di Santo Stefano in Sardegna, è partito un carico costituito da decine di container carichi di armi. Queste armi erano frutto della confisca di un’intera nave che il miliardario russo Alexander Borisovich Zhukov – uno degli oligarchi della nuova Russia – nel 1991 stava cercando di portare dall’Ucraina alla Croazia, durante il conflitto dei Balcani.
Il ministro della Difesa ha dichiarato che il carico è «costituito da armi individuali, di squadra e contromezzi, con relativi munizionamenti, tutti di fabbricazione ex sovietica, confiscati dall’autorità giudiziaria a seguito del sequestro in mare di 20 anni fa». Ci siamo liberati di questo imbarazzante fardello e lo abbiamo destinato ad armare i Peshmerga a Erbil nel Kurdistan iracheno, impegnati proprio contro l’Isis.
L’ex ministro della Difesa Arturo Parisi ha inquadrato l’intera situazione con un efficace epigramma: “L’Italia non è in guerra, ma è dentro una guerra. Per essere in guerra bisogna almeno avere una visione comune del nemico e di come combatterlo”.
In conclusione, la Libia ha una importanza strategica non solo per l’Italia, visto che è al nono posto al mondo fra i Paesi più ricchi di petrolio con riserve stimate in 48,363 milioni di barili, cui si aggiungono 1,505 miliardi di metri cubi di gas. Chi scenderà in campo per cacciare il Califfato dalla Libia lo farà per difendere i propri ideali, il proprio Paese ed i propri interessi, non certamente per difendere i nostri.
3 marzo 2016
vedi anche
 
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Renzi e la Libia: il dramma di una avventura coloniale ma non troppo.
Se la vicenda libica fosse una serie televisiva,di quelle che si offrono oggi sul catalogo di MySky, ci si potrebbe abbandonare al un bel frastuono di risate. Potremmo cominciare la prima puntata con la visita spettacolo di Gheddafi a Roma, grottesco canto del cigno politico del rais e di Berlusconi, con la seconda puntata con il demenziale discorso sulla Libia di Napolitano pochi mesi dopo. Discorso che tra le fanfare risorgimentali, nel pieno delle celebrazioni dei 150 anni dell'unità d'Italia, indicava la terra di Libia come luogo di un rinascente spirito mazziniano. Poi se, proprio uno avesse bisogno di ridere ancora un pò, ci sarebbe una terza puntata sui bombardamenti in Libia del 2011 con gli onnipotenti occidentali senza soldi per completare le missioni aeree e via fino a oggi.
Il problema è che è tutto mondo reale e, come abbiamo visto in questi giorni, i morti, come avvenuto ai due sfortunati lavoratori italiani, sono sul campo. Gli ostaggi appaiono e scompaiono, si alternano dichiarazioni di guerra, e riunioni del gabinetto di crisi con Mattarella, a forti, ufficiose frenate. Da oltre un anno il governo italiano è passato da preannunciare operazioni fantasiose, con migliaia di uomini in campo (sui giornali..), a manifestare brusche frenate. Ufficialmente l'intervento in Libia sarebbe condizionato dalla formazione di un governo di unità nazionale, in quel paese, che dovrebbe richiedere l'intervento di truppe legittimate dall'ONU. Il fatto che questo governo è spaccato in due (uno a Tobruk e uno a Tripoli), a volte si è riunito in Tunisia per paura delle reazioni in patria, che da mesi annuncia la propria definitiva formazione che non arriva mai, aggiunge confusione ad attendismo in una situazione complessa. Ma vediamo un pò di questioni.
Dopo la caduta di Gheddafi la Libia è velocemente precipitata in una guerra civile nelle e tra le tre macroaree più significative (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan). La complessa composizione sociale della Libia, già tale anche quanto Gheddafi regnava sovrano, ha alimentato conflitti tra bande che si alimentano, a loro volta, di questa complessità. Inoltre la penetrazione dello Stato Islamico, bisognoso di uno sbocco a ovest specie con la complicazione degli scenari siriano e iracheno, ha reso ancora più convulsa la situazione. La guerra è ovviamente per il controllo del territorio e delle risorse economiche (leggi petrolio e gas) disponibili. Tra le risorse economiche dobbiamo considerare anche la possibilità di usare la Libia come snodo di ogni traffico, compreso quello degli imbarchi verso il continente.
La Libia, dopo la fase successiva alla caduta di Gheddafi, è tornata così velocemente tra le emergenze dell'area. Per la questione del controllo delle risorse, quella del contenimento dell'Isis, che assume caratteri diversi rispetto alla vicenda siriana, e quella del governo delle migrazioni. Siccome non siamo più nell'ottocento, quando con un pò di cannonate dalle navi e scaramucce sul terreno si risolvevano i problemi, se la situazione è complessa sul terreno lo è dal punto di vista delle soluzioni politiche, economiche e militari.
Già, l'ottocento. Perchè pochi sanno che il primo intervento militare americano in Libia è del 1804, con una strana, almeno per noi, coalizione: gli Usa alleati della Svezia e del regno delle due Sicilie. La Libia, essendo uno snodo strategico verso tutta l'Africa, interessava e interessa agli Usa. Perchè, allora come oggi, controllare la Libia è controllare un incrocio di rotte tra i paesi del Nordafrica e verso il Centrafrica. Una posizione strategica della quale ha goduto, a lungo, il colonnello Gheddafi. Impadronirsi di questa posizione da parte degli Usa sarebbe, non va dimenticato, mettere in discussione l'egemonia francese in tanti paesi che si dovrebbero servire dello snodo libico una volta che questo sarebbe normalizzato. Basta guardare la cartina geografica, del nord e del centro Africa, e vedere quanti paesi francofoni ci sono, per capirlo.
Poi c'è la questione petrolio. Prima che scoppiasse la guerra del 2011, condotta dalla contraddittoria coalizione anti-Gheddafi con copertura aerea di una contraddittoria alleanza occidentale, le riserve di petrolio libiche non erano esattamente qualcosa di trascurabile. La Libia infatti godeva di due stime: la prima di una capacità di riserve stimabile in 60 miliardi di barili. La seconda si attestava su circa 41-42 miliardi. In ogni caso sempre superiore a quella degli Usa stimata, nel 2013, in 33 miliardi di barili. Rispetto al 2011 è certamente cambiato l'andamento prezzo del petrolio (semplicemente crollato da allora) ma la logica rimane la stessa: chi si impadronisce di queste riserve libiche, e può vantare contratti esigibili, dice la sua sul mercato mondiale e sull'andamento dei prezzi.
Qui entrano in scena altri attori, oltre alla solita Francia, l'Italia (l'Eni prima della guerra contava per il 25% delle esportazioni di gas libiche) e la Cina. Già perchè, sempre prima della guerra, quasi il 12% delle esportazioni libiche di petrolio erano verso la Cina. Una cifra importante per entrambi i paesi chissà se la Cina, con le ristrutturazioni che sta attraversando, ne avrebbe bisogno in futuro. C'è poi un "dettaglio" da mettere sul tavolo. L'80% delle riserve di petrolio libico, che sarebbe comunque qualcosa di più vasto delle riserve Usa, è collocato nell'area di Sirte. Ma chi c'è a Sirte oggi? Parole ufficiali del ministro degli esteri italiano del due marzo: "l'Isis è concentrata a Sirte". Già e vicino Sirte in aree occupate dal governo di Tobruk, governo che sta bloccando l'accordo di unità nazionale al quale gli italiani tengono, ci sono già, a supporto del locale governo, truppe francesi, inglesi e americane (conferma di varie fonti, anche italiane). Il rischio per gli italiani è palese: che Tobruk conquisti un bel pò di queste riserve, e di pozzi, con aiuto francese e americano senza che l'Italia possa vantare qualche legittimità spartitoria.
E quale è il governo dell'area amico di Tobruk? L'Egitto, così si capisce che le frizioni tra l'Italia e quel paese su Regeni non riguardano solo il fatto in sé, gravissimo, ma anche le differenze tra i due paesi sul comportamento da tenere verso il governo di Tobruk. E si capisce perché l'Italia insiste sul governo di unità nazionale libico, che dovrebbe chiedere l'intervento internazionale: perchè senza un quadro di alleanze, in cui sono chiari bottino e ruolo degli italiani, si apre una corsa alla concorrenza sulle risorse, come da Tobruk verso Sirte, in cui il governo ha solo da perdere.
In definitiva la Libia sta attraversando un processo di ristrutturazione degli assetti coloniali del 21° secolo dopo quelli dell'ottocento, dove già c'erano anche gli Usa, e del novecento con l'invasione alla bersagliera del 1911-12. Un processo che riguarda snodi geopolitici chiari, la posizione della Libia lo spiega da sé, un mare di petrolio e tanto, tanto gas. Ma se questo è chiaro la situazione è complessa: sul terreno e anche nei rapporti tra le potenze che vorrebbero o potrebbero intervenire. Italia, Usa e Francia infatti sono alleate ma anche competitor. Inoltre la potenza largamente egemone, gli Usa, non vuole proprie truppe in campo almeno fino a che non sarà chiaro l'indirizzo della prossima presidenza Usa (Hillary Clinton sarebbe più incline a mandare truppe sul campo, ma dovrebbe fare dei passaggi per arrivarci, mentre è molto incerto un pronostico sul campo repubblicano). Per questo gli Usa hanno "offerto" pubblicamente il comando della missione Libia all'Italia. Un'offerta tanto scomoda, se vuoi il bottino spendi le tue truppe, che il presidente del consiglio ha tenuto, in risposta il profilo più basso possibile. Perchè al momento, come giustamente sostengono diversi analisti militari, non è chiaro l'obiettivo della missione Libia nè chi sono effettivamente i nemici e nemmeno chi sono gli alleati. Visto che i competitor francesi e americani vanno considerati alleati fino ad un certo punto, sarebbe pur sempre una guerra per spartirsi il bottino quindi senza esclusione di colpi, e che, inoltre, la situazione amici-nemici sul campo è tutto fuorché chiara. Resta sullo sfondo questo enorme bottino, geopolitico ed energetico, ma il resto è piena confusione.
Va ricordato che anche l'Iraq era un grosso bottino energetico, la Somalia lo era grosso dal punto di vista geopolitico, e che il tutto si è risolto con un disastro per gli Usa. Perchè la guerra moderna è ad alta complessità -dai fattori finanziari a quelli interni a quelli sul campo- e non basta la sola potenza tecnologica. E quindi non basta la sola prospettiva di un bottino. Queste considerazioni valgono tanto più per l'Italia, la cui potenza tecnologica è inferiore a Usa e Francia, che in questi scenari ha sempre giocato a rimorchio. Ora se ne trova uno che è sotto casa, con la questione profughi che può farsi pesante, che riguarda interessi strategici Eni e nel quale non può giocare a rimorchio. Ma, allo stesso tempo, l'Italia (meno male) non ha mai giocato al leader delle guerre neocoloniali del 21° secolo. E si vede, lo si è visto in tutti gli ondeggiamenti sulla vicenda libica da cinque anni a questa parte. Oltrettutto se l'Italia ha sempre avuto uno status di potenza coloniale verso la Libia, ha sempre anche avuto uno status di potenza colonizzata dagli Usa e quello di paese debole rispetto alla Francia. Tutte questioni che si fanno notare in uno scenario, animato e convulso, come quello libico. Dove l'Italia si è fatta notare per dichiarazioni muscolari come di basso profilo.
L'ideale per il governo Renzi, in questa situazione, sarebbe fare una guerra coloniale ma non troppo. Abbastanza da garantire interessi nazionali, e propaganda interna, ma non così tanto da farsi risucchiare nel labirinto di una guerra civile permanente. In uno scenario dove gli amici al massimo sono competitor, gli amici possono mollarti alla prima allenza che cambia, i mezzi sono quelli che sono. Vedremo se si tratterà, da parte del governo, di una lenta agonia prima di decidere qualcosa, di un capolavoro politico o di un disastro annunciato. Per ora ci sono due ostaggi morti. Quelli purtroppo sono la più classica delle certezze.
redazione, 5 marzo 2016

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