venerdì 30 marzo 2018

GRAZIE MONDO

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Se n'è andato uno dei maestri del pallone,Emiliano Mondonico da Rivolta d'Adda,terra docile,pacata e sorniona proprio come il grande Mondo,che però è stato capace di gesta che rimarranno nel cuore di chi ha amato il calcio che fu e continua tutt'ora ad amarlo nonostante tutti i soprusi che il capitalismo ha minato fin dalle basi.
Rimarrà nel cuore delle squadre non solo dove ha giocato od allentato,perché il Mondo era super partes e non poteva starti antipatico anche se magari la domenica(rigorosamente alle 15)ti aveva servito una sonora sconfitta.
Fortunatamente tanti dei sua anni da allenatore li ha spesi a Bergamo dove è rimasto nel cuore della tifoseria e di certo non fuggirà adesso che la morte l'ha chiamato,anzi avrà un posto d'onore nei ricordi di chi ha già una certa età ed ha avuto la fortuna di vedere l'Atalanta o altre squadre con in panchina il baffo di Rivolta.
Grazie e arrivederci Mondo.
Sotto pezzi di ricordi presi dal sito di Atalantini.com(https://www.atalantini.online/ ).

Finisce una storia, inizia una leggenda.

Questa notte si è chiusa una porta.

E si è aperto un portone.

Non mi voglio aggiungere alla lunghissima coda di aggettivi e di teneri ricordi, per altro più che meritati e mai abbastanza per definirlo appieno, che stanno accompagnando la notizia dell’addio del nostro Baffo di Rivolta.
Mi limito a prendere atto che, questa notte, è finita una storia.

E’ finito un capitolo, memorabile, della storia dell’Atalanta. E’ finita la storia di un uomo sui generis, irripetibile. E’ finita la storia di un calcio che, da stamattina, passerà da realtà a ricordo.

Per noi degli “anta” si chiude una storia che abbiamo vissuto. Che amiamo ricordare e raccontare. E per quelli che negli “anta” non ci sono ancora finisce una storia che non hanno vissuto, ma che hanno potuto toccare.

Ed è proprio per loro, e per chi verrà dopo di loro, che adesso si apre un portone. Quello della leggenda.

Perché quell’Atalanta-Malines, quel Ajax-Torino, quegli Juve-Atalanta da stamattina hanno lasciato le vesti di gesta storiche per calzare quelle di gesta leggendarie.

La storia la si dimentica. Spesso rimane solo sulle pagine dei libri. Mentre la leggenda rimane nelle menti e nei cuori, per sempre.

La vita è crudele. Una storia, per diventare leggenda, deve pagare dazio con la vita del suo protagonista. E’ una dura legge, ineluttabile, che accompagna il nostro essere umani.

Quell’Atalanta-Malines, quel Ajax-Torino, quegli Juve-Atalanta da oggi sono leggenda, come il loro regista. E sfido chiunque, dopo che anche noi degli “anta” avremo raggiunto il Mondo nella sua “Nuova Rivolta”, a dire che quegli anni sono stati dimenticati o sono solo capitoli sui libri della storia fubbaliera.

Perché quella sedia alzata nei cieli di Amsterdam non scenderà mai.

Le coppe e i trofei, quelli sì. Si alzano, si abbassano e si rialzano nelle mani di altri.

Ma quella sedia alzata nei cieli di Amsterdam no.

Quella non scenderà mai.

Rodrigo Dìaz

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Cose dell’ altro Mondo

A dare la notizia è stata la figlia Clara con un messaggio su Facebook. «Ciao Papo.... sei stato il nostro esempio e la nostra forza... ora cercheremo di continuare come ci hai insegnato tu... eternamente tua», lo struggente messaggio.

Negli ultimi giorni sapevamo in tanti che il Mondo era messo veramente male. Semplicemente non volevamo credere alla cosa.

Quando sette anni fa insorse il suo grave problema di salute il Mondo rimase innanzitutto scioccato come diede modo di vedere nella conferenza stampa nella quale, in modo estremamente coraggioso, denunciò a tutti la sua situazione.

Col tempo e dopo le prime operazioni il male sembrava debellato anche se fu lo stesso Emiliano ad avvisare che c'erano probabilità tutt'altro che remote di una recrudescenza. Ciò era purtroppo puntualmente avvenuto e lui non ne aveva fatto mistero pero' con uno spirito diverso: combattivo, speranzoso, forse sereno per quanto lo si possa essere in una situazione simile.

Perché il Mondo era una persona particolarmente intelligente, sicuramente furbo e arguto come un contadino, un fattore nella piena padronanza del suo status. Era un uomo che veniva profondamente dalla terra, dalla sua terra posta al confine tra le province di Bergamo e Cremona e che dall'approccio quotidiano con la natura aveva fatto suo quel rapporto disincantato col mondo (nel senso del "tutto" non di lui stesso) secondo il quale la vita non e' ne' buona ne' cattiva ma semplicemente E' e occorre vivere al suo passo, volenti o nolenti.

Persona di buon senso e di una umanità disincantata, che non vuol dire particolarmente buona o cattiva, aveva imparato ad essere uomo di più bandiere senza apparire falso o opportunista. Stamattina lo piangiamo in egual modo noi, i tifosi del Toro, della Fiorentina (della quale si professava tifoso) e giù fino a Como, Cremonese, Cosenza, Albinoleffe e probabilmente altri.

Parlavano di lui come fautore di un calcio "pane e salame". Certo non era un profondo conoscitore di tattica e preparazione atletica come può esserlo il Gasperini attuale ma le sue squadre erano figlie della arguzia e della grinta con cui il Mondo affrontava gli avversari e, perché no, l'ordine costituito. I suoi giocatori prendevano da lui, avevano coscienza dei propri limiti ma si spingevano spesso oltre.

Come capito' in quella Primavera del 1988, e tra pochi giorni saranno esattamente 30 anni. Anzi, sembra quasi un disegno voluto andarsene nel periodo tra il pareggio di Lisbona e l'andata a Malines.

Mondonico era una figura complessa, molto più di quello che dicevano le apparenze. Mai banale la persona, mai scontato il carattere: la sedia alzata di Amsterdam quando guidava il Toro, l'"invasione in tribuna" alla ricerca di un molestatore e chissà quant'altro. E poi la sua Cascina di Rivolta, la "Brusada", manifesto fedele del suo essere e dei suoi affetti.

Dicono che sarebbe andato a Liverpool a veder la Dea se non fosse stato per la salute. Un pezzo di Atalanta se ne va. Non sono parole retoriche, è un pezzo grande stavolta.

Il Mondo da noi ha fatto la storia, la nostra storia, e verrà ricordato per sempre, com'è giusto che sia.

Prima che il pubblico decadimento fisico o psichico ne potessero minare la figura. Un Mondo mai vinto, un Mondo mai visto.

Giusto così, ciao Mondo, sei stato unico.

Calep

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La Curva ricorda il Mondo

Abbiamo il cuore a pezzi, ci ha lasciato il nostro grande Emiliano.
Hai scritto pagine storiche e indelebili nella nostra Storia, legando per sempre il tuo nome a questi colori, a questa città.

Hai conquistato tutti, con la tua semplicità e il tuo modo di fare da "pane e salame", hai affrontato questo brutto male sempre con il sorriso e con serenità.

Ci mancherai tanto, non potremo mai dimenticarti.
Un abbraccio a Clara ed alla tua Famiglia.

CIAO GRANDE "MONDO"!

(dall'account Facebook della Curva Nord)

giovedì 29 marzo 2018

ANCORA MORTI SUL POSTO DI LAVORO


Il silos crollato (Novi), i soccorsi, (Lanari) e le due vittime
L'ennesima morte di due operai deceduti per un'esplosione al porto di Livorno è l'ultimo fatto di cronaca in ordine cronologico che colpisce l'Italia in ogni suo dove,uno stillicidio più o meno silenzioso o che non suscita clamore se non nell'immediatezza dell'evento come per dire tanto ormai ci siamo abituati.
Un certo giornalismo meschino o di comodo fa balzare la notizia in secondo piano e praticamente ormai è già scivolata dai palinsesti dei notiziari mentre la morte di Frizzi,e della signora ebrea a Parigi,pace alle loro anime(left la-francia-rivive-lincubo-dellantisemitismo )sono,per motivi differenti,di più spessore ed attrattiva.
Per non parlare della notizia dell'incendio del centro commerciale in Siberia dove 64 persone tra le quali 41 bambini sono morti(il post bambini-morti-incendio-centro-commerciale ),o volendo allungare la lista sulle stragi di Damasco e le autobomba che quotidianamente mietono vittime in Medio Oriente,morti di seconda classe solo da news quando se ne parla.
L'articolo proposto(iltelegrafolivorno )parla della tragedia,o disastro annunciato o altro,ci saranno indagini senza responsabili comunque,che ha fatto fermare oggi per lo sciopero generale di otto ore un'intera città per ricordare le due vittime e solidarizzare con le loro famiglie e dire basta a queste morti assurde.

Esplosione, morti operai a Livorno, indagini per omicidio colposo. Sciopero e fiaccolata.

La tragedia del porto. Fascicolo aperto dalla procura. Esplosione e incendio.

Livorno, 29 marzo 2018 - Un dolore senza fine per una città sconvolta. Livorno piange due lavoratori, morti mentre svolgevano la loro mansione, travolti da un'esplosione al porto di Livorno, al deposito dei Costieri Neri. Un boato, le fiamme, il silo che si accartoccia e quasi si affloscia su sé stesso. Immagini tremende quelle raccontate dai colleghi dei due uomini morti, Lorenzo Mazzoni, 25 anni, e Nunzio Viola, 52 anni.

Per loro non c'è stato niente da fare. I colleghi nell'immediatezza della tragedia e il 118 pochi minuti dopo hanno provato a rianimarli. Ma l'onda d'urto è stata troppo forte. Un'altra persona è ferita in ospedale. Immediato il fuggi fuggi e l'evacuazione. C'era il pericolo che ci fossero altre esplosioni. Tutto è accaduto intorno alle 14 di mercoledì 28 marzo. Da capire le cause della tragedia.

Gli operai stavano maneggiando acetato di etile, una sostanza volatile ma molto infiammabile, usata per pulire le cisterne. Qualcosa non ha funzionato. Forse è rimasta una sacca di gas. E' bastato un innesco banale per incendiare tutto. Il tam tam della notizia si è sparso in un batter d'occhio. C'è ancora terrore negli occhi di chi ha visto l'incidente. I camionisti in particolare, che stavano caricando nei pressi del deposito, e che sono stati testimoni del rogo. 

La città piange altri due morti sul lavoro. E ha organizzato tra l'altro una fiaccolata, che partirà alle 21 nella serata di giovedì 29 marzo da piazza della Repubblica, per toccare l'autorità portuale e poi tornare in piazza della Repubblica.

La procura è intanto al lavoro. Si procede per omicidio colposo plurimo, ma al momento non ci sono indagati. La città rimane profondamente turbata. I sindacati hanno indetto uno sciopero sul porto per la giornata di giovedì 29 marzo. Giorni di profondo lutto.

mercoledì 28 marzo 2018

IL MODELLO TEDESCO


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Nell'immaginario collettivo parlando di lavoro il modello tedesco è sinonimo di accuratezza e perfezione condito da un'inflessibilità disciplinare e tanta volontà e partecipazione attiva da parte di tutti i lavoratori.
In realtà non è proprio così almeno negli ultimi tempi,dove se da un lato la contrattazione sindacale al contrario dell'Italia(madn il-sindacato-unico-di-regime )in Germania ha portato ad una riduzione degli orari settimanali e ad un aumento delle retribuzioni,ma non in tutti i casi come si può notare nell'articolo di Contropiano(news-economia ).
Mini jobs con salari da fame ed orari accartocciati,delocalizzazioni nei paesi dell'est,in particolar modo Ungheria,Polonia,Repubblica Ceca e Ucraina,rendono i dati sulla disoccupazione e sui reali stipendi dei lavoratori falsati.
Anche il famoso ed affidabile made in Germany è frutto di lavoro compiuto nei paesi sovra citati dove i salari sono più bassi e più proficui per i capitalisti mentre l'assemblaggio finale è il solo lavoro compiuto in territorio tedesco.

Delocalizzazioni e mini-job: il lato oscuro della Germania mercantilista.

di  Coniare Rivolta* 
Il cosiddetto ‘modello tedesco’ di crescita ci viene puntualmente presentato come l’avanguardia europea dello sviluppo economico, specialmente se contrapposto ad un’area mediterranea beatamente inefficiente. Le vere ragioni della competitività tedesca vanno tuttavia ricercate nella capacità di produrre a costi più bassi le stesse merci realizzate in altri Paesi (come l’Italia). Questo schema di crescita trainato dalle esportazioni poggia essenzialmente sul contenimento del costo del lavoro e non, come ci viene spesso raccontato, sulla spiccata propensione dei tedeschi ad investire ed innovare processi e prodotti. Tutt’altro che secondario è il  ruolo giocato dall’introduzione della moneta unica e dalla conseguente perdita di un naturale strumento di gestione dell’economia: in breve, se fino al 1999 Paesi come l’Italia potevano usufruire della leva del cambio per difendere la competitività delle proprie merci (oltre che l’occupazione ed i salari), con l’euro si è accettato di usare la stessa moneta dei tedeschi, e di conseguenza la competizione internazionale è finita per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. Questi ultimi sono stati infatti chiamati a sopportare continue riforme del mercato del lavoro (superamento dell’articolo 18 e Jobs Act in ultimo) volte alla moderazione salariale e, dati alla mano, senza effetti positivi sui livelli occupazionali.

Un ulteriore “segreto” del successo del modello tedesco risiede nelle delocalizzazioni. Il crescente processo di globalizzazione dei mercati ha favorito lo spostamento di determinate fasi del ciclo produttivo in Paesi che presentano condizioni più favorevoli al conseguimento del profitto, tra cui l’impiego di forza lavoro indigena a costi contenuti. È quindi immediato notare che l’esternalizzazione di una determinata parte della produzione tenderà ad avvenire verso Paesi in cui è possibile sfruttare salari più bassi e manodopera meno tutelata, al fine di ridurre i costi di produzione. Proprio con riferimento al caso tedesco, già nel 2010 alcuni economisti avevano iniziato a parlare di questo ‘aiutino’ alla competitività tedesca, sottolineando che la Germania stava largamente beneficiando dalle pratiche di off-shoring in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Ucraina. Qualche dato: nel 1999 la quota di investimenti esteri tedeschi diretti verso l’Est europeo era del 4%, mentre raggiungeva il 30% già nel 2004. In altri termini, molte imprese tedesche stavano aprendo stabilimenti ad est dell’ormai capitolata Cortina di Ferro al fine di trasferirvi le fasi meno complesse della produzione (ovvero, quelle richiedono minori competenze lavorative) e lasciando dentro ai propri confini i processi che richiedono forza lavoro qualificata.

Un aspetto cruciale è tuttavia legato al fatto che questa tendenza vede la Germania delocalizzare in Paesi non inclusi nell’Eurozona, e pertanto dove è anche possibile sfruttare – oltre ad un contesto istituzionale più favorevole al capitale e meno tutelante per il lavoratore – il potere d’acquisto di una moneta forte, come l’euro, che permette l’approvvigionamento di prodotti semilavorati a costi particolarmente favorevoli. La rilevanza di questi rapporti commerciali è cresciuta costantemente nel tempo, fino a rappresentare il 20% del commercio tedesco: se da un lato questi rapporti sono favoriti anche da ragioni di carattere storico (quali gli stretti legami politici ed economici che legavano la Germania Est ai Paesi del blocco sovietico prima della riunificazione), riteniamo che le motivazioni preponderanti ricadano nella logica dell’economicità, come ad esempio l’ampia disponibilità di manodopera e semilavorati a basso costo. In questa ottica andrebbero interpretati anche gli interessi della Germania all’allargamento ad est dell’Unione Europea, che di fatto favorirebbe il commercio per effetto del mercato unico.

In questo contesto dobbiamo però considerare che il tessuto produttivo tedesco è a vocazione fortemente industriale. La manifattura continua a ricoprire un ruolo preponderante, nonostante la crisi abbia fatto accelerare la caduta della quota relativa a questo settore nel PIL tedesco (nel 2016 il 22% del valore aggiunto tedesco derivava dalla produzione di beni manifatturieri, a fronte del 16% in Italia) e sebbene i componenti a più basso contenuto tecnologico siano realizzati all’estero, mentre restano in Germania le fasi finali della produzione oltre alle attività di ricerca e sviluppo. Se le economie dell’Est europeo risultano quindi indispensabili al modello produttivo tedesco, al quale forniscono una forza lavoro disciplinata e poco costosa, il settore manifatturiero tedesco è riuscito, grazie ad un forte tasso di sindacalizzazione favorito dalla dimensione delle imprese tedesche (35 addetti in media per impresa, al fronte dei 9 in Italia), a mitigare la spinta al ribasso sui salari. Tuttavia, il crollo delle retribuzioni è avvenuto invece in altri settori che comunque concorrono a garantire competitività alla manifattura tedesca. In particolare, esso è stato particolarmente pronunciato nei servizi, settore nel quale una quota rilevante di occupati subisce gli effetti della precarietà. Il suddetto crollo delle retribuzioni fa sì che il settore manifatturiero si possa avvantaggiare, per l’appunto, del basso costo dei servizi di cui usufruisce, riducendo così una componente di costo.

La precarizzazione, spinta e sostenuta dalle riforme Hartz, ha avuto la sua massima manifestazione nell’introduzione dei mini-job, una serie di contratti di lavoro atipici introdotti nei settori non orientati all’export che prevedono retribuzioni di 450 euro mensili (che scendevano a 400 prima del 2013) o addirittura di 1 euro all’ora. Stando ai dati, circa 7.4 milioni di tedeschi sono attualmente coinvolti in quelle mansioni “scarsamente retribuite” che ricadono nelle pratiche contrattuali previste dal nuovo assetto istituzionale del mercato del lavoro. È infine interessante notare che le suddette riforme hanno prodotto una cospicua balcanizzazione del mercato del lavoro anche in riferimento alla sotto-occupazione: stando ad uno studio del 2012, il tasso di disoccupazione delle Germania sarebbe il doppio di quello ufficialmente indicato qualora si facciano delle appropriate correzioni basate sull’incidenza del lavoro part-time e atipico.

Come interpretare congiuntamente questi due fenomeni? Meglio partire dagli effetti: tra il 2000 ed il 2011 il salario medio orario nominale in Italia è cresciuto del 40% a fronte di una crescita di poco più del 20% in Germania. Il dato sulle retribuzioni medie riflette (oltre al ‘vero’ tasso di disoccupazione) da un lato la riduzione del salario reale nei settori a basso valore aggiunto dovuta alle riforme del mercato del lavoro, e dall’altro una modesta dinamica delle retribuzioni nei settori più avanzati. Queste ultime, per effetto delle delocalizzazioni attuate o anche semplicemente minacciate, non sono cresciute come in altri Paesi europei. In altre parole, la disponibilità di forza lavoro vicina e a buon mercato rende disciplinato il lavoro tedesco anche nei settori caratterizzati da una più alta produttività.

In conclusione, queste considerazioni mettono in discussione la visione di una “società a due livelli”, nella quale la contrapposizione cruciale sarebbe quella che si manifesta tra i subalterni specializzati operanti nella manifattura e i lavoratori non qualificati che operano nei servizi. Più lucidamente, quel che effettivamente emerge è una società a due classi (salariati e capitalisti) in cui il processo combinato di deregolamentazione del mercato del lavoro e di movimento incontrollato dei capitali ha portato a pressioni a ribasso sul costo del lavoro, con l’unico effetto di spostare ancor più i rapporti di forza a favore dei capitalisti.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.wordpress.com/

martedì 27 marzo 2018

I REATI DI SOLIDARIETA' E UMANITA'


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Qualche giorno fa si parlava dell'odissea dei migranti che ora non è più un affare principalmente del Mediterraneo,parlando della sola Europa,ma anche dei monti posti al confine tra l'Italia e le altre nazioni a corollario delle Alpi(madn tra-monti-e-mari-lodissea-dei-migranti ).
Il caso della migrante Destiny,incinta e malata di tumore e speranzosa di raggiungere la sorella in Francia,è stata bloccata presso il confine dalla gendarmeria e scaricata come un pacco alla stazione della vicina Bardonecchia assieme al marito.
Successivamente nonostante le cure a Torino è deceduta ma dando al mondo Israel,nato prematuro,ed ora gara di solidarietà postuma per dare un futuro decente a questo bambino:giorni prima un soccorritore francese è stato denunciato per avere salvato una famiglia nigeriana presso il Monginevro(riferimenti sempre al link sopra).
La disumanità della gendarmeria francese che ha avuto il coraggio di trattare come merce una donna malata ed incinta:chissà se anche il collega"eroe"(di sicuro con un coraggio enorme)morto per essersi voluto scambiare con un ostaggio avrebbe fatto lo stesso.
Questo è delegato al primo articolo(infoaut.org/migranti/morti-bianche )mentre nel secondo i rimanda alla nave Open arms della Ong spagnola Proactiva che è sotto sequestro per avere aiutato dei migranti in mare,mentre in Libia grazie soprattutto alle politiche di Gentiloni e Minniti si continua a morire in campi di concentramento(oltre a torture e stupri)e anche se in diminuzione i viaggi della disperazione continuano ancora.

Morti bianche.

Destiny era incinta e malata di tumore. E' morta dopo essere stata fermata sul colle della Scala mentre provava a valicare il confine per raggiungere la sorella in Francia. La Gendarmeria l'ha scaricata come un sacco davanti alla stazione di Bardonecchia.

Destiny è morta. È morta circa una settimana fa dopo aver partorito. Tutti la davano già per morta. Ma ha lottato. Non solo per lei. Incinta, aveva cercato di varcare il confine per arrivare in Francia dalla sorella, sapendo di essere molto malata. La gendarmeria francese l’aveva respinta indietro.

Sorpresa sul colle della Scala mentre provava a valicare il confine per raggiungere la sorella in Francia, l’hanno scaricata assieme a suo marito davanti alla stazione di Bardonecchia. Nemmeno una telefonata per avvertire della presenza di una donna in gravi condizioni di salute.

Una medica volontaria l’aveva poi portata in ospedale, al Sant’Anna di Torino dove è rimasta ricoverata più di un mese.

La davano già per morta, Destiny. Aveva un linfoma nel petto a causa di una precedente trasfusione infetta: non riusciva a stare seduta e ormai neanche a respirare. Le hanno fatto il taglio cesareo il più tardi possibile per non rischiare che non ce la facesse nemmeno il bambino.

È una tragedia dei nostri confini. Non quelli che si perdono nell’orizzonte sul mare, lontano, ma quelli delle nostre montagne, sui sentieri su cui possiamo camminare anche noi. Ma è una tragedia per noi, perché invece per le donne e gli uomini migranti è quello a cui sanno già che probabilmente andranno incontro.

Noi lo facciamo per sport, paghiamo per fare le passeggiate in montagna e affondare nella neve a 1900 metri. Loro lo fanno per sopravvivere. Non è per fare la morale ma per prendere la misura delle cose.

“I migranti per le autorità francesi valgono meno dei pacchi di merce”, sono le parole dei volontari italiani che operano al confine. È vero, ma un confine si sorveglia in due. A un pugno di metri dalla gendarmeria francese c’è la polizia italiana.

Cinque anni di carcere sono il prezzo che la magistratura francese ritiene di dover far pagare ad una guida alpina per aver portato all’ospedale di Briançon un’altra donna migrante incinta, facendole quindi passare il confine francese.

Questa donna è stata uccisa.

Quanto deve costare a queste donne e a questi uomini il fatto di poter sopravvivere?
 Quanto deve costare loro mettere al mondo un altro/a di loro? La loro stessa vita?

Tutto questo non è accettabile.

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“Salvare vite in mare è diventato un reato”.

di  Intervista a Francesco Piobbichi *   
Come è stata la tua missione con la Open Arms?

In realtà è andata come me l’aspettavo dal punto di vista del metodo di come lavorano. Sono una Ong strutturata nella quale intervengono volontari che si intersecano su un equipaggio fisso. I ruoli sono prestabiliti ed il metodo di lavoro è comunque democratico. Io ero li per raccontare la frontiera con i miei disegni, ma ho dato una mano come tutti gli altri quando era necessario. La cosa interessante è che i volontari provengono da storie diverse e anche le motivazioni sono di varia natura. L’aspetto umanitario nella scelta di partecipare resta comunque quello preponderante.

Cosa hai visto in mare?

La cosa impressionante è la difficoltà del soccorso, trovare un gommone nel mare è come cercare un ago in un pagliaio, non è così semplice come pare se non hai assistenza aerea. Abbiamo passato ore in mare con le lance per cercare i gommoni. Ancora più complicate sono i soccorsi quando il mare è mosso. La squadra con la quale mi sono trovato ha lavorato in maniera impeccabile, non hanno sbagliato nulla nel salvataggio e vi assicuro che non è semplice.

Dopo l’introduzione del codice Minniti, e dopo il sequestro delle due navi delle Ong com’è adesso la situazione nel mare davanti le coste libiche?

Ora è rimasta solo la nave Acquarius di Sos Mediterranée, il che vuol dire che i soccorsi sono affidati di fatto ai libici che operano con la Capitaneria di Porto italiana, di fatto le navi militari e quelle impegnate nelle operazioni di Frontex non stanno partecipando ai soccorsi da mesi. Quello che i governi europei volevano ottenere lo hanno di fatto ottenuto. Quello che avviene in quel tratto di mare non lo saprà nessuno, eppure le partenze continuano.

Ma dal punto di vista del diritto internazionale questo cosa significa?

Voi vi ricordate quando Reagan bombardò Gheddafi per la questione del Golfo della Sirte? Allora, gli Usa fecero appello al diritto internazionale dicendo che la zona rivendicata da Gheddafi era fuori dagli accordi internazionali. Oggi paradossalmente assistiamo alla stessa vicenda, ovvero che l’Italia e la Libia hanno esteso la zona di competenza della Libia con un accordo bilaterale che non ha valore giuridico in quanto non regolato dal diritto internazionale. Di fatto la Open Arms è sotto sequestro con un procedimento che non può prevalere sul diritto internazionale, e la Juventa (l’altra nave sequestrata) perché nei soccorsi ha operato con “eccesso umanitario”. Ma al di la della disquisizione tecnica sulle acque libiche e la zona SAR, il fattore grave è che si riconosce la Libia come paese sicuro. Ovvero che le persone che scappano dai lager e chiedono di essere soccorse dovrebbero essere riconsegnati ai libici. Proprio ieri l’altro l’Onu stessa nei suoi rapporti, ha ribadito che è impossibile assicurare protezione nei confronti dei migranti dato che avvengono stupri torture ed esecuzioni.

Cosa ti ha colpito di più in questa vicenda?

Mi ha colpito vedere un bambino libico, malato di leucemia, con il carrello della flebo che navigava con i due suoi fratelli per raggiungere l’Europa per curarsi. Una scena surreale, trovare di notte su di un gommone in mezzo al mare queste persone. Mi ha colpito vedere un ragazzo di 22 anni che dopo poche ore dal nostro salvataggio è morto per gli stenti e la fame a seguito della sua permanenza in un lager in Libia. Mi ha colpito una donna eritrea che mi ha detto grazie per averci salvato dal mare e dalla Libia. Ma la cosa che mi ha fatto più male è stato il sequestro della open arms.

Cioè?

Cioè che su questa strada finiamo per istituire  il reato di solidarietà, una cosa che mi fa vergognare profondamente. Non so davvero come si possa pensare che chi lavora nei soccorsi possa riconsegnare queste persone ad uno stato che non assicura loro la protezione. Sparare sulla croce rossa, questo e non altre sta succedendo, mettere sotto accusa chi salva vite non penso sia un vanto per il nostro paese, incriminare il capitano della Open Arms ed alcuni membri per associazione a delinquere finalizzata all’immimgrazione clandestina è un reato che non sta in piedi dal punto di vista giuridico, e ancora di più dal punto di vista morale. Lo ripeto ancora una volta, la Libia non è un paese sicuro, occorrerebbe evacuare i migranti da quello Stato, non riportarceli. 

Francesco Piobbichi * operatore sociale del progetto della Fcei – Mediterranean Hope 

lunedì 26 marzo 2018

L'ARRESTO DI PUIGDEMONT IN GERMANIA


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Nelle ultime settimane la Spagna è la pecora nera d'Europa per i diritti umani,e per fare peggio dell'Italia in questo campo vuol dire che sono conciati male,tra abusi delle leggi sul terrorismo finendo agli asili dei vertici del Parlamento catalano dispersi in Europa,ed il caso sempre caldo dell'ex Presidente Carles Puigdemont è tornato prepotentemente alla ribalta dopo il suo arresto avvenuto in Germania(vedi anche:madn i-vertici-dellesecutivo-catalano.a bruxelles ).
Ora il paese tedesco ha novanta giorni per decidere se estradare o meno il politico catalano,ma essendo la Germania uno tra gli Stati che ha avuto più contatto con il governo Rajoy per solidarizzare per una Spagna unita,è molto probabile che Puigdemont rischi di tornare a Madrid per essere incarcerato e processato per tradimento e altri capi d'imputazione dove rischierebbe una pena tra i quindici e i trent'anni.
Il mandato d'arresto europeo era stato spiccato subito dopo la dichiarazione d'indipendenza della Catalunya dello scorso ottobre,e da allora l'ex Presidente aveva chiesto ed ottenuto l'asilo politico in Belgio:alla notizia del suo arresto migliaia di persone sono scese in strada in tutta la nazione catalana e particolarmente a Barcellona,dove si sono registrati scontri con decine di feriti e qualche arresto come riportato nell'articolo sotto:contropiano internazionale-news .

Berlino arresta Puigdemont, scontri in tutta la Catalogna.

di  Marco Santopadre 
Questa mattina la polizia tedesca ha arrestato, su segnalazione dei servizi segreti di Madrid, l’ex presidente catalano in esilio, Carles Puigdemont, mentre a bordo di un’automobile attraversava la frontiera tra la Danimarca e la Repubblica Federale Tedesca, diretto in Belgio.

Puigdemont era arrivato in Finlandia venerdì per realizzare incontri politici e delle conferenze sulla vicenda catalana, come aveva già fatto nelle settimane precedenti prima in Danimarca e poi in Svizzera, dove si sono nel frattempo rifugiate l’ex portavoce della CUP Anna Gabriel e la segretaria generale di ERC Marta Rovira, sulle quali grava un ordine d’arresto della magistratura spagnola.

Ma ieri aveva dovuto lasciare il paese dopo che Madrid ha chiesto l’arresto e l’estradizione del dirigente catalano riattivando l’ordine di cattura europeo spiccato mesi fa e poi sospeso per timore che la giustizia belga lo respingesse vista la sproporzione delle accuse contestate.

Il governo finlandese ha chiesto a Madrid di inviare la richiesta di arresto in inglese e non in castigliano come era avvenuto, allungando i tempi e chiarendo implicitamente che l’arresto di Puigdemont non rientrava tra le sue priorità. Al contrario Berlino si è dimostrata assai più zelante dopo aver guidato, insieme a Francia e Italia, il sostegno delle istituzioni europee alla repressione spagnola contro due milioni e mezzo di cittadini catalani che il 1 ottobre hanno votato nel referendum per l’autodeterminazione sfidando i divieti di Madrid. Ora le autorità giudiziarie tedesche hanno fino a 90 giorni per decidere se estradare o meno il dirigente catalano perseguitato dalla Spagna. Puigdemont passerà la notte in cella e domattina verrà interrogato da un giudice che dovrà decidere se confermare o meno la carcerazione preventiva fino alla decisione sull’estradizione.

Anche la polizia scozzese ha intimato oggi all’ex ministra dell’Istruzione catalana, Clara Ponsatì, anche lei in esilio e che da marzo insegna nella università di Saint Andrews,  di consegnarsi vista la richiesta di arresto da parte delle autorità spagnole. Il primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon, ha espresso la sua solidarietà e quella del governo di Edimburgo ai dirigenti catalani e il suo sostegno al diritto all’autodeterminazione del popolo catalano, criticando la decisione del governo spagnolo di perseguire gli indipendentisti. Ma Sturgeon ha anche ammesso di non poter intervenire sull’ordine europeo di cattura. “La nostra polizia e i nostri tribunali sono legalmente obbligati a eseguire determinate procedure” ha spiegato la leader dello Scottish National Party.

L’Assemblea Nazionale Catalana e Omnium Cultural, le maggiori associazioni indipendentiste, hanno immediatamente convocato una manifestazione alle 17 di oggi. La marcia è partita dalla sede della Commissione Europea di Barcellona per concludersi davanti al consolato tedesco, ingrossandosi notevolmente lungo il percorso. Giunti alla sede diplomatica di Berlino, i manifestanti l’hanno praticamente circondata e tra slogan e canti hanno ammainato una bandiera spagnola e issato quella catalana.

 Dal canto loro i Comitati per la Difesa della Repubblica hanno iniziato a manifestare alle 16 nel centro di Barcellona contro la repressione e per la costruzione della Repubblica, al grido di “questa Europa è una vergogna”. La manifestazione è arrivata davanti alla sede del governo spagnolo di Barcellona ed è cominciato un vero e proprio assedio durato per ore, al grido di “fuori le forze di occupazione” e “polizia assassina”.
I militanti della sinistra anticapitalista, arrivati davanti ai cordoni di agenti che proteggono gli uffici di Madrid, sono stati oggetto delle cariche dei Mossos d’Esquadra in assetto antisommossa verso i quali hanno indirizzato oggetti vari, fumogeni e verdure. Ma nonostante le ricorrenti cariche l’assedio non si è sciolto fino alle 22, quando è partita una carica violentissima e le camionette dei Mossos hanno inseguito i manifestanti a folle velocità nelle vie del quartiere. Gli indipendentisti hanno reagito erigendo delle barricate con i contenitori dell’immondizia e altre suppellettili e in alcuni casi incendiandole. A fine serata il bilancio in tutta la Catalogna era di 85 feriti e 9 arrestati.

Contemporaneamente i CDR hanno convocato altre mobilitazioni in altre località catalane davanti agli uffici delle Delegazioni del Governo spagnolo.
 A Girona i manifestanti hanno occupato la sede della rappresentanza del governo spagnolo mentre gruppi di militanti dei CDR e dei sindacati bloccavano le autostrade in cinque diversi punti. La polizia ha caricato i manifestanti a Lleida, a Girona e anche a Valencia. Tanto l’ANC e Omnium quanto i CDR chiedono ai sindacati la convocazione di un nuovo e immediato sciopero generale.

 Nel pomeriggio  l’organizzazione giovanile indipendentista e anticapitalista Arran ha rivendicato una scritta, tracciata davanti alla residenza del giudice Llarena a Das (Girona), in cui il magistrato viene definito “fascista”. La Commissione Permanente del Consiglio Generale del Potere Giudiziario si è immediatamente riunioni in seduta straordinaria e ha chiesto al Ministero degli Interni di proteggere il giudice Llarena, titolare dell’inchiesta contro gli indipendentisti, e la sua famiglia.

domenica 25 marzo 2018

UN PERICOLO IN PIU' NELLE MANI DEI MACELLAI


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Già nel 2014 fu approvato un emendamento al Decreto Legge sugli stadi voluto dal deputato Gregorio Fontana di Forza Italia dopo le prime pressioni volute direttamente da Alfano sull'uso dei taser tra le forze di polizia(madn un-altro-giocattolo-pericoloso-in-mano.agli sbirri ).
Da venerdì scorso è ora in dotazione ai già ben equipaggiati macellai in divisa pronti ad utilizzare a cuor leggero questo nuovo giocattolo per loro,strumento di possibile morte per chi riceve una scossa di 50000 volt.
L'articolo preso da Infoaut(metropoli )parla dei decessi avvenuti in tutte le nazioni dove questi oggetti sono usati dalla polizia,mentre in altri sono in libera vendita(ne ho visto usare uno in Polonia)e della bramosia dei nostri alfieri dell'ordine nel poter usare le pistole elettriche in un'escalation di politica basata sulla sicurezza amplificata a dismisura dai mass media.

50'000 volt: anche in Italia le forze di polizia saranno dotate di taser.

A partire dal 23 marzo, a seguito di una circolare della Direzione Anticrimine, in Italia verrà sperimentato l’uso del taser da parte delle forze dell’ordine; in particolare il periodo di prova coinvolgerà sei città: Brindisi, Caserta, Catania, Milano, Padova e Reggio Emilia.

Il taser è una pistola in grado di rilasciare scariche elettriche fino a 50’000 Volt, con lo scopo di immobilizzare, o meglio “rendere innocue”, le persone nell’ambito di controlli di polizia e/o eventuali arresti. Il dispositivo è descritto dai produttori e dalle polizie sostenitrici come non mortale e maggiormente efficiente rispetto all’uso della forza diretta o alle armi da fuoco, parlandone inoltre come se fosse un giocattolo che non richiede alcuna restrizione.

La realtà è molto diversa, nei paesi in cui il taser è regolarmente impiegato dalle forze dell’ordine, ha causato morti e ferite permanenti alle vittime. Negli USA, inventori e principali utilizzatori, sono deceduti a causa delle scariche oltre 1000 persone; in Gran Bretagna, a partire dall’adozione avvenuta nel 2003, si sono registrati 17 morti per colpa del dispositivo. Nella maggior parte dei casi l’utilizzo del taser non è esclusivo, ma è solo uno dei tanti mezzi con cui i poliziotti si scagliano contro le vittime. Riguardo la situazione americana, dei più di 1000 casi di decesso sono state presentate cause legali per ben 442 episodi, in quanto le vicende per come erano narrate nei rapporti di polizia non corrispondevano al reale svolgimento dei fatti e inoltre gli agenti avevano rilasciato scariche mortali non giustificate. Inutile dire che delle cause appena citate, 435 sono state archiviate.

Decessi nell’utilizzo del taser si sono verificati anche in Francia e Canada.

Non è un mistero che in Italia si stia vivendo una psicosi securitaria, infatti negli ultimi tre anni milioni di euro sono stati spesi per la fornitura alle forze dell’ordine di nuovi mezzi e strumenti per la gestione dell’ordine pubblico. Per giustificare gli abusi polizieschi e la repressione delle piazze viene costantemente agitato lo spettro del terrorismo, ultimamente quello degli anni di piombo, facendo demenziali paragoni e additando il rischio di instabilità interna ai movimenti sociali. Emblematico in questo senso il caso della manifestazione antifascista di Torino del 22 febbraio.

L’introduzione del taser rappresenta uno scatto in aventi decisivo nell’ambito delle misure securitarie, un rischio reale e costante per chi vive e attraversa i territori. Visto quale banda di macellai (e di torturatori, come è stato recentemente ricordato) veste in Italia la divisa, c’è da preoccuparsi… 

UNA FORZIDIOTA AL SENATO


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Lasciando stare per ora il facile accoppiamento d'intenti di due forze politiche che perseguono le stesse linee politiche con nomi diversi(Lega e M5s)la nomina al Senato di una forzidiota della prima ora,Maria Elisabetta Casellati,è il proseguimento della seconda Repubblica e sempre con gli stessi protagonisti.
Una reazionaria confinata ancora ad ideologie da Medioevo con scelte politiche che parlano da sole e come riportato nel breve redazionale di Senza Soste(casellati-al-senato )che ha sempre difeso coloro che i grillini hanno sempre a parole odiato,i vari inquisiti,condannati ed elementi della casta,per non parlare dei due burattinai Grillo e Berlusconi che stanno al di fuori della stanza del potere e che reggono i fili dei senatori e dei deputati.

Casellati al Senato: godono Previti, Ghedini e la destra cattolica

Figlia assunta al ministero, leggi ad personam, contraria alle unioni civili e dentro la banda Previti-Ghedini: ecco chi è la nuova presidente del Senato

Correva l’anno 2004, il Movimento 5 Stelle era ancora lontano dal nascere, e Maria Elisabetta Casellati era da tempo nota alle cronache giornalistiche. Tanto da essere oggetto di un articolo di Gian Antonio Stella, quello che scriverà La Casta con Sergio Rizzo, per un caso di nepotismo, anzi di familismo, da manuale. Non appena nominata sottosegretario al ministero della salute, infatti, Maria Elisabetta Casellati nominò subito la figlia come capo di gabinetto. Il nome giusto per una presidenza del Senato all’insegna del rinnovamento, insomma.

Ma il problema della Casellati non sta tanto in questi episodi da vecchio regime, ma dal provenire dallo stretto entourage di Ghedini. Basta fare una ricerca su google affiancando il suo nome a quello dell’avvocato di Berlusconi, e dall’aver fatto parte, come sottosegretario, di quel Ministero della Giustizia che ha provato a far passare tutte le leggi ad personam nel periodo caldo dei processi per Berlusconi.  E, pur essendo stata al Csm, alla Casellati è mancata certo la larghezza di vedute tipica di chi occupa questo ruolo. Per la neo-presidente, infatti,  le unioni civili sono un provvedimento discriminatorio per le coppie eterosessuali (sic). In diversi sostengono che la carriera della Casellati abbia avuto un mentore: Cesarone Previti. Di sicuro, come vedete dal link che pubblichiamo, la Casellati si è scagliata contro le sentenze sfavorevoli a Berlusconi e Previti bollandole come “politiche”

http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2003/08/07/Politica/LODO-IMI-CASELLATI-E-UNA-SENTENZA-POLITICA_135100.php

Se dobbiamo argomentare alla grillina chiudiamo così: Di Maio  ha detto che gli inquisiti e i condannati non dovevano diventare presidenti del Senato. Ha finito per votare una presidente che gli inquisiti e i condannati li ha sempre difesi assieme ai loro privilegi, ostentando comportamenti da casta. Tutto questo in cambio di cosa? Un’idea ce la siamo fatta ma aspettiamo le prossime puntate.

redazione, 24 marzo 2018

sabato 24 marzo 2018

RENE' HOUSEMAN


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E' deceduto l'altro giorno l'ex ala destra argentina René Houseman,che come tanti personaggi leggendari del calcio era un misto tra genio e sregolatezza,un talento cristallino offuscato dall'abuso di alcol come è accaduto a molti calciatori.
Nell'articolo preso da Senza Soste(rene-houseman-splendori-miserie-un-artista-del-futbol)scritto a nemmeno un anno prima dalla sua dipartita le sue imprese dentro e fuori dal campo,le sue contraddizioni e le sue debolezze che hanno fatto da contraltare alla sua classe pura.
Nato in un contesto poverissimo fa strada grazie al piede tra i palloni,per le statistiche l'Huracan è stata la squadra con la quale ha avuto maggiori successi(108 reti in 266 incontri)giocando due mondiali con la nazionale albiceleste(13 reti in 55 incontri)compreso quello del 1978,per poi marciare trent'anni dopo(l'unico della selección)con le madri di Plaza de Majo.

René Houseman: splendori e miserie di un artista del fútbol.

Genio e sregolatezza dentro e fuori dal campo, l’argentino René Houseman può essere considerato a giusto titolo una delle ali destre che hanno fatto la storia del calcio

Era un’ala destra pura, non a caso sulla schiena portava il numero 7. Era genio e sregolatezza. In campo faceva impazzire tutti con i suoi dribbling secchi (da qui uno dei suoi tanti soprannomi, Gambeta) e la capacità di sfornare assist e segnare con grande regolarità. Fuori dal campo amava alzare il gomito e se l’alcool ne ha minato la salute, l’ossessione per la bella vita gli ha svuotato il conto in banca. Per molti, in patria, era il… migliore. Ma non stiamo parlando di George Best, bensì di colui che qualcuno ha definito il talento argentino più puro dopo il dio del calcio.

René Houseman, nome francese e cognome anglofono, nasce a La Banda, nella provincia interna di Santiago del Éstero. Con i genitori si trasferisce da bambino a Bajo Belgrano, una delle periferie più povere di Buenos Aires. Una vita subito in salita per lui che da piccolo era soprannominato Cerdo (maiale) perché non aveva acqua corrente per lavarsi. “Quando sembrava che potesse piovere portavo con me una saponetta”, raccontò in un’intervista”. Già da giovanissimo è costretto ad abbandonare la scuola per dare una mano alla famiglia ma l’evidente e smisurato talento che Houseman mostra col pallone tra i piedi sulle strade e sui campetti di periferia non passa inosservato. I primi ad accorgersene sono i dirigenti di una delle due squadre del barrio. Non quelli dell’Excursionistas, di cui è acceso tifoso, bensì degli acerrimi rivali del Defensores de Belgrano.

La carriera

In due anni brucia tutte le tappe: passa in pochi mesi dalle giovanili alla prima squadra, in seconda serie, e dopo 16 gol e altrettanti assist in 38 partite viene chiamato all’Huracán da un giovanissimo allenatore dall’occhio lungo che scriverà la storia del calcio argentino, César Luís Menotti. Che il giorno del suo debutto in Primera dirà di lui: “Questo ragazzino smilzo e allampanato che avete visto oggi, diventerà la stella del calcio argentino”.

Appena un anno più tardi sarà l’unico (insieme al suo compagno di club Carrascosa) a salvarsi nella deludente esperienza ai Mondiali tedeschi. 3 gol in 6 partite non saranno sufficienti alla Seleción albiceleste, partita tra le favoritissime, a superare la seconda fase del torneo. Quattro anni più tardi, al contrario, sebbene sulla panchina sedesse proprio El Flaco, nel vittorioso (e tristemente famoso) mondiale argentino Houseman fa solo da comprimario. È di fatto il dodicesimo uomo e viene mandato in campo a 15-20 minuti dalla fine per cambiare la gara o aprire in due le ormai stanche difese avversarie.

L’alcol

Ad una lettura più approfondita, il suo ruolo di comprimario di lusso ai Mondiali del ’78 è invece indicativo dell’assoluta grandezza del calciatore. Houseman era alcolizzato ormai da anni e la sua dipendenza lo aveva portato più volte a saltare allenamenti o arrivare ubriaco alla partita. È passata alla storia quella contro il River Plate del 22 giugno 1975 quando El Hueso Houseman si presentò negli spogliatoi del Huracán in condizioni pietose dopo le celebrazioni del primo compleanno di suo figlio. Dopo molte docce fredde e svariati caffè, Houseman scende in campo da titolare. Menotti preferisce un Houseman ubriaco piuttosto che un qualsiasi rincalzo sobrio. El Hueso corre poco e male ma al 40° segna un gol meraviglioso. Si lancia in profondità superando in velocità i due centrali del River, scarta il portiere della nazionale Fillol e insacca. Dopo di che si accascia a terra simulando un infortunio. “Non ne potevo più”, rivelò a carriera finita. “Bramavo solo di rientrare a casa e mettermi sotto le coperte”. I tifosi salutarono la sua uscita dal campo cantando un coro che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua carriera: “Y chupe, chupe, chupe… no deje de chupar… el Loco es lo más grande del fútbol nacional!” (“Che beva, beva, beva, non smetta mai di bere, il Loco è il più grande del calcio nazionale”).

Il suo talento cristallino vedrà la luce del tramonto ben prima di quando sarebbe scoccata l’ora del suo naturale declino. Anche il suo portafogli cominciò presto a svuotarsi. L’ossessione per la bella vita porta i suoi amici e i tifosi dell’Huracán, per i quali resta un idolo assoluto, ad organizzare nell’anno 2000 una partita di beneficenza tra vecchie glorie del suo amato club e una selezione di stelle nazionali in cui gli vengono donati i proventi dell’intero incasso.

Fuori dal campo

Houseman non ha mai fatto mistero di considerarsi un uomo di sinistra seppur non sia mai stato attivista di movimenti, associazioni o partiti politici. Quando gli hanno chiesto perché avesse accettato la convocazione al Mondiale del ’78 ha risposto che se avesse saputo cosa stava accadendo nel Paese avrebbe rifiutato la convocazione. Jorge El Lobo Carrascosa, capitano della nazionale albiceleste e dell’Huracán, quindi suo compagno di squadra, la convocazione però la rifiutò proprio per motivi politici. Per l’anniversario dei trent’anni del Mundial fu però uno dei pochissimi calciatori di quell’Argentina a partecipare alla marcia organizzata da Las madres de Plaza de Mayo. Una breve camminata che dalla famigerata Esma arrivò fino allo stadio Monumental che intendeva riabilitare i giocatori e perdonarli per aver accettato la convocazione.

In un’intervista a El Gráfico del 2002, quando l’Argentina era in piena crisi economica, giustificò l’ondata di espropri proletari che colpirono le grandi catene commerciali. “Cosa volete, che la gente muoia di fame? Se non avessi sfondato col calcio e avessi avuto bisogno li avrei saccheggiati anch’io i grandi magazzini”. Ma non ha mai partecipato ad alcun cacerolazo. “Condivido – disse un giorno – ma mi vergogno a scendere in piazza con un mestolo e un tegame”.

Peronista convinto, El Hueso ha rivelato che quando Perón morì, durante il Mondiale di Germania ’74, pensò seriamente di abbandonare il ritiro per tornare in Argentina e presenziare ai funerali. “Fu il líder máximo di tutti gli argentini. Non come quel figlio di puttana di Videla”.

Bandiera e banderuola

Ma Houseman è anche un personaggio ambiguo e controverso, tanto che molti adesso lo chiamano “il voltagabbana”. Colpa dell’alcol, secondo alcuni. Fino a 15 anni fa non faceva mistero di idolatrare Maradona e odiare Passarella. “Maradona? Il più grande di sempre”, diceva. “Solo Messi si avvicina a lui ma a Leo gli manca qualcosa per arrivare al suo livello”. Poi bastò che Maradona parlasse male di Riquelme perché cambiasse diametralmente pensiero: “Maradona è un ciccione infame che odia tutti. Ama solo se stesso. Dice che ci sono dei codici di comportamento che devono essere rispettati? È peggio degli sbirri. Che torni in Arabia a rubare soldi e non metta più piede qua”. E poi: “Messi è molto meglio di Maradona, ma anche Cruyff e Pelé lo sono”.  Maradona gli rispose in un’intervista tv senza proferire parola ma facendo il segno della croce con l’indice e il medio della mano.

Di Daniel Passarella, capitano e leader incontrastato dell’Argentina ’78, ha collezionato le seguenti dichiarazioni: “Non capisce niente di calcio”, “È un coglione”, “Quando giocava era un personaggio disgustoso”, “Uno spacca-spogliatoio”, “Un bastardo”. “Quando ebbi bisogno mi voltò le spalle: gli chiesi un piccolo aiuto economico per seppellire mia madre e si rifiutò”. Solo pochi anni più tardi la riconciliazione: “Passarella? È il numero uno. Come persona e come un calciatore. Mi ero arrabbiato per quella storia del funerale di mia madre ma Daniel mi rispose così perché il suo River aveva appena perso in casa col Newell’s ed era comprensibilmente arrabbiato. Un giorno noi campioni del mondo del ’78 ci siamo ritrovati nel ristorante che Passarella aveva con Gallego. Mi si avvicinò per parlarmi e io nel dubbio avevo già afferrato il coltello. Ma si scusò subito”.

Ma facciamo un passo indietro, l’ultimo. Houseman conclude la sua carriera con la maglia dell’Excursionistas, la squadra che amava sin da bambino. In realtà la sua carriera El Hueso  l’aveva chiusa da tempo. Appesantito e già alcolizzato, con i Villeros gioca appena 24 minuti. Un omaggio per niente dovuto e scontato data la sua militanza nel Defensores de Belgrano. I cui tifosi, infatti, non la prendono benissimo definendolo, così come si fa con quelli importanti, “persona non grata”.

Insomma, un po’ Best, un po’ Garrincha, un po’ Corbatta. Ma non certo un esempio di coerenza e fedeltà. In due parole, René Houseman.

Tito Sommartino

tratto dall’edizione cartacea di Senza Soste n.126 (maggio 2017)

venerdì 23 marzo 2018

QUANDO LA VIOLENZA FA RIMA CON EFFICIENZA


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La morte avvenuta qualche giorno fa a Madrid di Mmame Mbage,ambulante abusivo deceduto per un arresto cardiaco provocato dalla caccia all'uomo della polizia spagnola(madn unaltra-morte-per-mantenere-il-decoro.nelle città ),sembra tanto la fotocopia di quella avvenuta a maggio dello scorso anno di Nian Maguette a Trastevere(madn la-prima-retata-col-morto ),appena dopo la maxi retata contro i migranti di Milano in stazione centrale e primi esiti del decreto Minniti sul decoro urbano.
Il personaggio nella foto non è un lontano parente del dvce,ma bensì colui che era a capo del Nucleo Speciale Anti Degrado e Abusivismo di Roma,e come accadde a Genova nel G8 ecco che ora viene promosso a Comandante della Polizia di Roma Capitale,lo sceriffo con la pistola ha quindi guadagnato gradi grazie alla sindaca Reggi per via della sua violenza che coincide per loro con efficienza.
Nell'articolo(infoaut le-formidabili-carriere )non c'è solo la sua storia ma saltano fuori altri nomi di carrieristi o arrampicatori sociali dir si voglia che a Roma hanno avuto scalate e maggiori poteri per essere figli di,amici di oppure violenti contro chi,tutti frutti indigesti dello scandalo di mafia capitale(madn le-prime-condanne-per-mafia-capitale ).

Le formidabili carriere sulla pelle dei poveri.

Mafia, polizia e politica a Roma.

Nian Maguette aveva 54 anni, veniva dal Senegal e lavorava come venditore ambulante nelle strade del centro di Roma. Morì nel tentativo di fuggire da una retata della Polizia di Roma Capitale il 4 maggio 2017. I testimoni raccontarono di una vera e propria caccia all’uomo che gli uomini del Nucleo Speciale Anti Degrado e Abusivismo misero in atto fra le vie del rione Trastevere, con il tragico (ma drammaticamente scontato) finale della morte di un lavoratore colpevole solamente di guadagnarsi il pane per resistere alla povertà e provare a costruirsi un futuro dignitoso. Lo stesso pensiero, una casa seppur considerata una “baracca” dove poter vivere dignitosamente, devono averlo avuto le famiglie Rom di via Salviati, a Tor Sapienza, scacciate dalle proprie abitazioni (poi demolite) dallo stesso “Nucleo Speciale” con tanto di pistole in vistascacciate dalle proprie abitazioni (poi demolite) dallo stesso “Nucleo Speciale” con tanto di pistole in vista, o quelle della “baraccopoli” di Ponte Mammolo, anche loro allontanate con la forza da quel misero giaciglio che erano riusciti a costruirsi senza alcun tipo di soluzione alternativa. Ma non solo, questo nugolo scelto di uomini più simili ad una Delta Force che ad un ordinario corpo di Polizia Locale, è ben noto nelle periferie della città in quanto spesso chiamato a intervenire negli sfratti e negli sgomberi delle case popolari o delle occupazioni abitative. Capo indiscusso era Antonio Di Maggio, lo “sceriffo con la pistola” o Tonino Bronson come viene simpaticamente ribattezzato dai suoi colleghi. Il verbo al passato non è casuale, perché da ieri Di Maggio è stato promosso a Comandante della Polizia di Roma Capitale. Un atto quasi dovuto dopo che la sindaca Raggi gli aveva sostanzialmente conferito pieni poteri solo poche settimane dopo l’assassinio di Nian Maguette, ma che conferma un trend nella capitale: fare la guerra ai poveri è un trampolino di lancio per le carriere di molti, un pass per promozioni, potere e agevolazioni.

Se infatti Di Maggio, alfiere col suo Nucleo della guerra a tutto ciò che viene definito “degrado e abusivismo” ma che nei fatti si rivela essere primo soldato della guerra ai poveri e ai tentativi di contrastare la povertà in città, diventa Capo della Polizia Locale è perché a Roma va strutturalizzandosi un meccanismo di Città-Laboratorio che vede in discesa la strada per chi decide di combattere dall’altro lato della barricata, in quella lotta di classe portata dall’alto verso il basso.

E quindi Di Maggio risulta essere solo l’ultimo di una lunga scia di esempi che delineano sempre di più come non si tratti più di casualità, di meriti personali, ma di una precisa strategia di controllo e sperimentazione che abbraccia vari poteri: da quello politico arrivando a quello repressivo e giudiziario.

In principio fu Luca Odevaine (o Odevain, come si chiamava prima di modificarsi il nome). Da semplice “militante” di Legambiente a Vice Capo di Gabinetto del sindaco Veltroni, la sua carriera conosce un ascesa fulminea e quasi inarrestabile (anche se poi arrestato ci finisce lui, nelle maglie dell’inchiesta “Mafia Capitale”). Diventa il gestore unico dei grandi eventi a Roma (come ad esempio il funerale di Papa Woijtila nel 2005), fino ad assumere cariche dirigenziali importanti nei sistemi SPRAR e Cara, in particolare a Mineo. Celebre, da rappresentante politico, la sua frase “Non parlo con chi viola la legge” rivolta ai movimenti e le organizzazioni per il diritto all’abitare che chiedevano un incontro per risolvere l’emergenza abitativa nella Capitale. Una battaglia condotta in prima linea quella contro i poveri e chi lotta per i propri diritti troppo spesso negati e calpestati, ma evidentemente ricordata e ben remunerata da chi sulla povertà fa affari. Non si dimenticarono di Odevaine i vecchi amici, fino all’inevitabile tonfo di Mafia Capitale figlio più di un normale rimescolamento di carte del potere che della reale volontà di cambiare l’esistente.

Ma è proprio dalle ceneri di Mafia Capitale che nelle buie stanze del Campidoglio si è fatto largo un nome rimasto pulito dalla palude dell’inchiesta più importante sulla corruzione a Roma di sempre. E’ quello di Aldo Barletta, anonimo funzionario del Dipartimento alle Politiche Abitative, mai un’intervista di troppo ne particolare esposizione mediatica anzi addirittura a leggere le carte giudiziarie nemico di quel Buzzi factotum della politica romana. Eppure bravo, evidentemente, a districarsi in quella complessa fase di transizione tra la gestione “tecnica” Tronca e l’insediamento, fin troppo lento, politico della giunta Raggi, tanto da divenire (un unicum nel suo genere) plenipotenziario tecnico di un dipartimento delicato ed importante come quello alle politiche abitative. La sua è un ascesa rapida e inquietante. Sua è la firma in calce sugli sfratti e sugli sgomberi oltre che la continua ostruzione “tecnica”, tramite ritardi, vizi di forma, pressioni, rispetto ad alcune questioni portate avanti dai Movimenti per il Diritto All’Abitare (come ad esempio la famosa delibera regionale sull’emergenza abitativa). Una figura tecnica ma dal comportamento estremamente politico: negare spazi di agibilità a chi prova ad organizzarsi per resistere alla povertà sul terreno della casa, con ogni mezzo necessario. Da semplice funzionario una rapida ascesa a direttore del Dipartimento e, sostanzialmente, ad Assessore alle Politiche Abitative “Ombra”, non c’è delibera o atto che non passi per le sue mani e la sua visione di città è estremamente chiara: a Roma non c’è spazio per i poveri ne tantomeno per chi prova a resistere e lottare contro questa condizione di povertà. Una visione, come abbiamo visto, estremamente remunerativa per l’ambizioso Aldo.

Non solo potere politico ma anche giudiziario repressivo. Il capo della polizia Franco Gabrielli, infatti, da prefetto di Roma ha dato il via ad un aspra stagione di scontro con i movimenti per il diritto all’abitare e in generale con le forme di lotta e di conflittualità in città. Suoi molteplici sgomberi di stabili occupati in nome del ripristino della legalità, sua la cinica politica di attacco ai poveri per quello che è a tutti gli effetti un tornaconto personale: il lasciapassare politico alla poltrona più ambita, quella di capo della Polizia. Si è imposto come uomo ordine (dagli sgomberi alle circolari che regolano i cortei in centro), costruendo una buona fetta della sua credibilità e della sua carriera sulle teste di chi in città combatte per una vita migliore. Non fa eccezione nemmeno Giuseppe Pignatone, procuratore della repubblica di Roma. Immediatamente ha virato le indagini della procura nei confronti di centinaia di compagni e compagne, costruendo fantasiosi castelli accusatori sui “racket” che gestirebbero le occupazioni abitative della città. Non c’è mai stato da parte di Pignatone un attacco diretto a chi veramente sugli immobili di Roma ha fondato un racket redditizio (dai palazzinari per arrivare ai mafiosi che gestiscono migliaia di appartamenti popolari nelle periferie), ma immediatamente si è puntato il dito contro chi organizza sul tema della casa forme di resistenza e di lotta, provando a gettare fango su queste esperienze di lotta con la teoria del racket, dell’utilizzo della povertà come strumento per i propri comodi.

A ben vedere chi sfrutta la povertà per i propri tornaconto sono proprio questi personaggi che sull’attacco diretto alle forme di lotta hanno costruito la loro carriera. Pignatone, che anche in audizione parlamentare ha tenuto a ribadire che uno dei maggiori problemi che affliggono Roma sono le occupazioni abusive gestite dal racket degli antagonisti, è ora uno dei più importanti magistrati italiani. Tra le sue mani passano le inchieste più calde e mediaticamente appetibili della procura di Roma, ivi compresa la famosa indagine su Mafia Capitale. Al suo servizio, da anni, i pubblici ministeri Tescaroli e Abamonte. Il primo è, al fianco del procuratore di cui sopra, assegnatario di gran parte dei più “succulenti” processi nel tribunale di Piazzale Clodio e firmatario di centinaia di indagini nei confronti di altrettanti militanti politici. Non vi è compagno o compagna, a Roma, che non conosca questo pubblico ministero, sempre in prima linea quando si tratta di provare a fermare le lotte e reprimerle. Al suo fianco, per molto tempo, quell’Eugenio Abamonte ora diventato addirittura capo dell’Associazione Nazionale Magistrati, anche lui firmatario di centinaia di denunce e misure cautelari a compagni e compagne di Roma.

Sono solo alcuni dei tantissimi esempi di un modello di gestione del potere che va sviluppandosi. A Roma chi fa la guerra ai poveri viene premiato, combattere le resistenze metropolitane diventa un lasciapassare dorato per poltrone e posti dirigenziali, per avanzamenti di carriera e potere.

Chissà se verremo mai ringraziati per tutti questi posti di lavoro che, nostro malgrado, ci troviamo da anni a creare. Sicuramente tutto ciò alimenta la nostra convinzione di essere dalla parte giusta della barricata. Per noi, per le nostre vite, quello che facciamo non è finalizzato ad un avanzamento di carriera, ad un posto di lavoro o ad una poltrona calda. Lo facciamo perché crediamo in un mondo diverso, nella possibilità di creare una società giusta ed equa. Vedere chi ci combatte auto incensarsi e premiarsi fortifica semplicemente questa nostra convinzione.

LE MIRE ESPANSIONISTICHE TURCHE IN SIRIA


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I volenti attacchi dei turchi nella città di Afrin sono,come detto dallo stesso sultano Erdogan,solo il primo passo di una vera e propria espansione territoriale della Turchia nel territorio siriano a maggioranza curda,gli unici che assieme ai russi stanno allontanando il pericolo Isis da quelle zone.
Le mire espansionistiche turche vedono già la relativamente vicina Aleppo come prossimo terreno di conquista mentre qualcosa si sta svegliando in Europa(ilmanifesto.it/erdogan-vuole-un-afrin-artificiale)con la cancelliera Merkal che parla di situazione inaccettabile.
L'articolo di Contropiano(loccupazione-di-afrin )parla della paura reale del popolo siriano posto tra l'incudine e il martello soprattutto quelli che sono nel territorio curdo anche se pure Damasco ha i suoi tragici problemi visto che i bombardamenti stanno annientando tutta la periferia attorno:da vedere anche madn lassedio-di-afrin .

L’occupazione di Afrin come inizio della spartizione della Siria.

di  Ferda Çetin * 
Lo scenario della spartizione della Siria in tre parti diventa realtà. Con l’occupazione di Afrin da parte dello Stato turco la spartizione è di fatto iniziata. La posizione degli USA, della Russia, dell‘UE e dell’ONU rispetto agli attacchi della Turchia contro Afrin mostra il sostegno senza limiti per l’occupazione e ulteriori massacri.

Una Siria senza contraddizioni tra etnie, religioni e confessionali, senza rivendicazioni su petrolio e suolo o con i vecchi confini, non è conveniente né per la Russia né per gli USA. Perché essere a favore di una Siria di questo genere significherebbe un sostegno al sistema cantonale autonomo-democratico messo in pratica nella Siria del nord e nel Rojava. Gli USA e la Russia con una Siria divisa in tre non vogliono mettere fine alle contraddizioni e alle tensioni tra popoli, religioni e confessionali, ma al contrario vogliono mantenerle in vita e in questo modo creare dipendenza. La posizione comoda e sicura di sé di Erdoğan e dei rappresentanti dello Stato turco non deriva dalla fiducia nelle proprie forze, ma dal loro coinvolgimento nel piano di una “Siria divisa in tre” da parte di USA e Russia.

In assenza di sorprese straordinarie, il piano degli USA e della Russia si svolgerà come segue: la zona intorno a Efrîn-Ezaz-Mare-El Bab-Cerablus verrà consegnata alla Turchia, Al Qaeda, Al Nusra e IS; la parte a est dell’Eufrate all’alleanza curdo-statunitense; l’ovest dell’Eufrate a regime siriano, Russia e Iran

Dato che i gruppi alleati con la Turchia per via della loro indisciplinatezza e della loro avidità di denaro e materiali, nei territori loro consegnati non assumeranno un ruolo costruttivo, il controllo sul territorio verrà assegnato alla Turchia. Gli Stati europei sono informati di questo piano e lo sostengono.

L’opinione pubblica europea con la sua solidarietà contro l’ingresso a Afrin ha dimostrato grande attenzione. I media tedeschi, inglesi e francesi hanno esortato i loro governi a intervenire contro l’occupazione turca. Ma gli attori rilevanti in Europa non hanno dato ascolto a queste proteste e aspettano la fine dell‘occupazione. Perché una gran parte dei gruppi che hanno preso parte alla guerra in Iraq e in Siria, ora si trovano in Turchia e a Ildib. L’Europa tema una dispersione di questi gruppi e vuole trattenerli in Siria e in Turchia. Parte del piano è anche il fatto di consegnare in questa fase alla Turchia tre miliardi di dollari, decisi nell’ambito dell’accordo sui profughi del 2015, che però per via delle relazioni tese non erano stati erogati, ma congelati.

Europa e USA contano sul fatto che gli 800.000 profughi di Afrin non arriveranno in Europa e possano vivere con il sostegno dei cantoni del Rojava. Per questo sono “contenti” di non accollare oneri economici all‘ONU. Lo spostamento di una gran parte dei profughi in Turchia nella Afrin occupata non significa solo uno sgravio per Erdoğan, ma rappresenta anche un punto nel quale l’ONU e l’UE in segreto speravano.

USA e Russia, che danno l’impressione di essere in concorrenza tra loro, prima della guerra in Iraq e in Siria hanno vissuto la loro fase più debole nel Medio Oriente. Entrambi avevano l’esigenza di un nuovo inizio nella loro politica in Medio Oriente. Il piano della spartizione della Siria in tre parti soddisfa in larga misura le loro esigenze. Perché un sistema democratico che garantisce la pace interna in modo autonomo, non sentirebbe più l’esigenza di USA e Russia. Un sistema democratico di questo genere significherebbe che la presenza della Russia e degli USA in Siria non potrebbe durare nel lungo termine. Una Siria divisa in tre parti, per tutti tranne che per USA e Russia significa insicurezza e tensione e una crisi continuativa. Una simile tensione e crisi porta la gente a rivolgersi verso un’autorità. USA e Russia sembrano essere pronti a assumere questo ruolo! La situazione di crisi terrebbe vive le tensioni del periodo della guerra civile. Questo non poterebbe i partecipanti a investire le loro energie e risorse per cose utili, ma a sviluppare potere, armamento, indebolimento dell’avversario, ecc.

Nel mio editoriale del 29 settembre 2014 scrissi che IS voleva cancellare il modello esemplare per il Medio Oriente in Kurdistan.

Che la Siria debba essere divisa in tre e le persone in Siria tenute in uno stato di inquietudine permanente, sono “dettagli” così piccoli che non possono rappresentare un ostacolo per la rivendicazione di possesso sul petrolio in Siria da parte degli USA (a est dell‘Eufrate), ovvero da parte della Russia (a ovest dell‘Eufrate) per i prossimi 20-25 anni. Diverso tempo fa l’artista di Kirkuk, Abdurrahman Kızılay, ha preso parte a un dibattito televisivo durante il quale il moderatore gli ha chiesto della ricchezza di petrolio a Kirkuk e degli effettivi padroni della città. Abdurrahman Kızılay all’epoca disse: “Kirkuk è di tutti, che Dio possa maledire il petrolio, se solo potesse prosciugarsi e noi fossimo liberi”. Quanto ha riassunto bene la situazione allora! Ma quanto è vero il proverbio in Africa, che il petrolio è sterco del demonio.

Questo editoriale è stato pubblicato originariamente il 19.03.2018 con il titolo “İlahlar bölünmüş Suriye istiyor” sul quotidiano Yeni Özgür Politika.

giovedì 22 marzo 2018

TRA MONTI E MARI L'ODISSEA DEI MIGRANTI


Risultati immagini per migranti monginevro e open arms
Nell'ultima settimana due casi che riguardano l'immediato aiuto ai migranti in seri casi di gravità di vita hanno fatto breccia nelle cronache italiane,quello dalla nave Open arms dell'ong spagnola Proactiva e il caso della guida alpina Benoît Duclos che ha soccorso una famiglia nigeriana nei pressi del passo del Monginevro.
Ed entrambi i coraggiosi protagonisti di queste vicende(non mi piace usare la parola eroi)dovranno passare guai giudiziari per i loro gesti di solidarietà come spiegato nei due articolo sotto(left se-non-ce-la-grotta-la-nascita-e-un-reato e osservatoriodiritti.it migranti-ong-proactiva-sequestro-nave-open-arms-sbarchi ).
Nel primo caso la famiglia di migranti nel tentativo di attraversare il confine per le montagne per dirigersi in Francia dall'Italia ha seriamente rischiato la morte e solo l'intervento della guida alpina facente parte dei Refuge solidaire ha saputo salvarli,ma dovrà presumibilmente andare a processo per questo per avere violato le leggi sull'immigrazione.
Stessa sorte per l'equipaggio della Open arms che ha tratto in salvo dei migranti nel Mediterraneo e li ha fatti scendere a Pozzallo dove sono stati denunciati per il reato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina dopo un tira e molla tra l'Italia e la Libia.
L'equipaggio infatti si è rifiutato di portare i migranti in difficoltà presso gli aguzzini libici per portarli nelle mani di quelli meno feroci degli italiani visto che nello Stato africano non esiste nemmeno la possibilità d'intervento della guardia costiera nazionale.

Se non c’è la grotta la nascita è un reato.

di Giulio Cavalli   
Benoît Duclos è una guida alpina e fa parte dei volontari di «Refuge solidaire», il gruppo che da mesi lavora a cavallo tra Francia e Piemonte per operazioni di soccorso nei confronti dei tanti migranti che, respinti a Ventimiglia, si avventurano ad alta quota, incuranti delle temperature e dei pericoli per provare ad attraversare la frontiera.

Era tra il Monginevro e Claviere quando ha avvistato una famiglia di nigeriani arrancare tra la neve (a 1900 metri) con due bambini piccoli di due e quattro anni. La madre era incinta, all’ottavo mese, ed era sfinita per l’avanzato stato della gravidanza. Benoît l’ha soccorsa. Mentre la portava in auto all’ospedale più vicino la Gendarmerie ha bloccato l’auto di Duclos con a bordo la famiglia e ha contestato la mancanza di documenti. Racconta Duclos di avere implorato i poliziotti di poter raggiungere un posto sicuro per il parto, un ospedale non distante dal punto in cui è avvenuto il controllo. Niente da fare. Intanto la donna ha cominciato ad avere le doglie e da lì a poco ha partorito.

Lui, Benoît Duclos, il 14 marzo ha ricevuto un avviso di garanzia per avere violato le leggi sull’immigrazione e presumibilmente andrà a processo. Da mesi la Francia non riesce a trovare il modo per bloccare gli ingressi illegali ma evidentemente la soddisfazione di punire chi evita che muoiano è un balsamo ideale per lenire il fallimento politico.

E così far nascere un bambino straniero, se non c’è l’addobbo natalizio, diventa una turpe azione da perseguire con forza. Come la nave della ong Open Arms che ieri a Pozzallo il prode Zuccaro (sempre lui, quello della famosa inchiesta che ha fatto tanto rumore sui taxi del mare per poi finire in niente) ha deciso di sequestrare perché “colpevole” di non avere dato donne e bambini in mano ai torturatori libici. Avanti così.

Buon lunedì.

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Migranti: lo strano sequestro della Open Arms, nave della ong Proactiva.

La procura di Catania ha disposto il sequestro preventivo della nave Open Arms della ong spagnola Proactiva, che soccorre da 2 anni nel Mediterraneo i migranti in fuga dalla Libia. Tre persone sono accusate d'associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Ma dalle carte emergono contraddizioni

di Francesco Floris
La procura di Catania ha disposto lo scorso 18 marzo il sequestro preventivo dell’imbarcazione Open Arms della ong Proactiva nel porto di Pozzallo e ha iscritto nel registro degli indagati la capo missione, Ana Isabel Montes, e il comandante della nave, Marc Reig Craus, in concorso con Gerard Canals, il coordinatore generale. Tutti stranieri e in forza a Proactiva, l’organizzazione di Barcellona che soccorre nel Mediterraneo i migranti in fuga dalla Libia da più di due anni.

Dal rifiuto della ong di affidare i migranti alla Libia allo sbarco in Italia, nel porto di Pozzallo

L’accusa è quella di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reati ipotizzati dopo gli avvenimenti successi fra il 15 e il 17 marzo. In quei giorni, i volontari della organizzazione non governativa si sono rifiutati di restituire i 218 migranti soccorsi in tre distinte operazioni di salvataggio, avvenute in acque internazionali al largo della Libia, a una motovedetta della Guardia costiera di Tripoli che era arrivata nel frattempo.

Successivamente, la nave Open Arms di Proactiva ha puntato la prua verso nord, collaborato con le autorità maltesi alle procedure Medevac (Medical Evacuation, evacuazione medica) nei confronti di una madre africana e un neonato di tre mesi in gravi condizioni cliniche e, infine, ha fatto rotta verso la Sicilia con «l’unico scopo di approdare in Italia» – si legge nel provvedimento – in attesa che la Guardia costiera italiana indicasse loro un luogo sicuro in cui attraccare (quello che viene definito in gergo un Pos, Place of Safety). Dopo quasi 48 ore d’attesa, questa località è stata individuata nel porto di Pozzallo.

Ma nelle 15 pagine del decreto di sequestro, firmate dal sostituto procuratore Fabio Regolo, non sembra essere tutto così lineare come appare, mentre si aspetta l’udienza di convalida da parte del presidente dell’ufficio Gip di Catania, Nunzio Sarpietro, che ha tempo fino al 31 marzo per esprimersi.

Gli interrogatori dell’equipaggio della ong Proactiva

Il primo snodo riguarda come sono stati condotti gli interrogatori nei confronti degli spagnoli oggi indagati. All’arrivo a Pozzallo, la capo missione Isabel Montes e il capitano Marc Reig Craus sono stati condotti per diverse ore al posto di polizia presso l’hotspot, dove hanno rilasciato dichiarazioni spontanee alla presenza di vari uomini di polizia giudiziaria di diversi corpi, incluso il commissario capo della squadra mobile di Ragusa.

Gli agenti, oltre a verbalizzare, hanno fatto delle domande e, secondo quanto scritto dal pm di Catania, un sostituto commissario di nome Fernando Perino si è fatto carico di un’immediata traduzione orale dall’italiano allo spagnolo del verbale. Che, proprio per questa ragione, non sarà firmato.

Secondo quanto dichiarato a Osservatorio Diritti dall’avvocato Rosa Lo Faro che difende il capitano Marc Reig, alcuni passaggi delle deposizioni sarebbero stati tradotti da un altro uomo dell’equipaggio di Proactiva, un volontario. Non sarebbe dunque mai stato chiamato un interprete di professione, mentre il decreto di sequestro dei telefoni cellulari notificato in seguito è stato tradotto in spagnolo per iscritto e quindi firmato dagli indagati.

Testimoni o indagati? Una falla nelle comunicazioni

Durante le dichiarazioni, pare che gli spagnoli non sarebbero stati informati del fatto che gli si contestasse un reato, tanto che, tornati sulla nave ormeggiata in porto, sarebbero stati pronti a ripartire dopo aver informato la capitaneria via mail di questa loro intenzione. Solo a quel punto, nella notte del 17 marzo, sarebbero stati avvertiti del fatto che sull’imbarcazione pendeva un provvedimento della magistratura e gli sarebbe dunque stato intimato di non lasciare il territorio italiano.

Il passaggio è cruciale. Senza informare che si stava trattando di ipotesi di reato, verrebbero a mancare una serie di garanzie: ad esempio, la possibilità di non rispondere alle domande o la mancata interruzione da parte degli agenti di polizia per informare chi sta parlando che qualunque cosa detta potrebbe essere usata in seguito contro di lui. Per questa ragione, pare che le dichiarazioni rilasciate quella sera non potranno in ogni caso essere utilizzate in un processo.

Ma il sostituto procuratore Fabio Regolo le ha inserite comunque a supporto del provvedimento, scrivendo che «a specifica domanda, il capitano riferisce di non aver ottemperato alle indicazioni da lui giunte dai diversi Imrcc (International Maritime Rescue Centre, i centri marittimi internazionali di salvataggio, nel caso in questione quelli di Italia, Spagna e Malta, ndr) intervenuti, in quanto così suggerito dal coordinatore generale (della ong, ndr)».

L’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione per delinquere

I presunti reati sono stati commessi a Ragusa e la procura lo scrive a chiare lettere. Perché allora a indagare è Catania? Perché questa volta c’è anche l’associazione per delinquere, oltre al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e quindi la competenza diventa della procura distrettuale di turno.

Catania, quindi, contrariamente a quanto avvenuto la scorsa estate quando a finire sotto la lente degli inquirenti di Trapani, che si tennero in proprio il fascicolo, fu l’imbarcazione Juventa della ong tedesca Jugend Rettet. Nel caso di Trapani si sarebbe trattato di spostare tutto presso la direzione distrettuale antimafia di Palermo.

Da cosa nasce in questo caso l’associazione per delinquere, caso piuttosto insolito di reato associativo volto a commettere un singolo crimine in una singola data, invece che una serie continuativa di delitti facenti parte di un disegno criminoso? Nasce proprio dalla dichiarazione del comandante Reig Craus, quando questi ha citato il coordinatore generale della ong, Gerand Canals, che si trovava in Spagna e non nel Mediterraneo.

Il suo coinvolgimento porta così a tre le persone indagate, che è poi il numero minimo necessario per contestare l’associazione per delinquere e spostare l’intero fascicolo da Ragusa a Catania. Nella procura retta da Carmelo Zuccaro, il magistrato che nel 2017 ha fatto parlare di sé ipotizzando piani e complotti per destabilizzare l’economia italiana da parte delle ong e collegamenti delle stesse con reti di trafficanti in Libia. Lo fece senza presentare prove in merito, più con le numerose interviste rilasciate ai media che non avviando azioni giudiziarie.

Le «acque Sar libiche» che non esistono

La procura scrive che «il capitano e la capo missione dopo essersi confrontati tra loro e con il coordinatore generale della ong (in quei momenti situato in Spagna) decidevano arbitrariamente di continuare la ricerca e poi il soccorso degli eventi per i quali la Guardia Costiera libica (le operazioni sono avvenute tutte in acque Sar libiche) aveva assunto il comando e quindi la responsabilità chiedendo espressamente e per iscritto di non volere nessuno nella zona teatro dell’evento per garantire la sicurezza delle fasi di soccorso».

In questo ricostruzione, però, alcuni punti non sembrano essere espressi in modo corretto. Le «acque Sar libiche» citate dal magistrato, infatti, da un punto di vista legale non esistono. Nessuno, dunque, è in grado di dire quanto sia vasta quest’area, oppure fra quali coordinate sia compresa.

L’Organizzazione marittima internazionale (Imo), infatti, non la inserisce nelle proprie mappe dopo che proprio Londra, sede degli uffici Imo, aveva respinto a dicembre 2017 la richiesta libica di ratificare una loro area Sar. Un fatto, questo, di cui è senz’altro informato il capitano di vascello Gianpaolo Bensaia, titolare dell’ufficio marittimo all’ambasciata italiana di Londra.

Il Codice di condotta voluto da Minniti non è una legge

Per i magistrati che indagano sulla ong impegnata nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, «il comportamento tenuto dagli indagati risulta inoltre in violazione dei dettami del Codice di Condotta che è stato dettato dalle Autorità Italiane». Il codice di condotta voluto dal ministro Minniti la scorsa estate non è una legge dello Stato. Non è un articolo del codice penale e non prevede reati. È quindi piuttosto strano che la Procura della seconda città siciliana lo affianchi al Codice penale come base giuridica per contestare comportamenti illeciti a dei privati.

ZUCCHE PIENE E ZUCCHE VUOTE


Risultati immagini per pm zucca
Raccontare una verità talmente ovvia sta costando il lavoro e forse la carriera al Pm Enrico Zucca,che altro non ha fatto che dichiarare una realtà come quella del dopo G8 di Genova,con i funzionari dello Stato,polizia e carabinieri condannati in maniera definitiva dalla Corte europea di Strasburgo per i diritti umani per i reati di abuso e di tortura,che non hanno subito nessun proseguo nonostante le precise prescrizioni della Corte(vedi:madn le-ennesime-condanne-di-strasburgo-per.il reato di tortura ).
Anzi tutti sappiamo che ora i responsabili dei drammi di quei giorni hanno fatto carriera e sono ora ai vertici delle varie polizie sbattendosene degli indirizzi europei,una delle pochissime volte che stranamente l'Italia non si prostra all'Eu,e quindi zucche vuote come quella del capo degli sbirri Gabrielli e del Presidente Csm Legnini(quindi il capo di Zucca)s'indignano e promettono vendetta.
Il ragionamento del Pm Zucca comunque è da allacciare al discorso Regeni e alle accuse al governo egiziano di non volere giudicare i loro di vertici di polizia rei della morte del giovane ricercatore italiano(madn alfano-degitto ).
Il discorso fila,nel senso che se l'Egitto,tacciato dai vertici italiani come un paese non democratico,non concede l'estradizione o non processa i vertici della propria polizia,l'Italia che si autoincensa come Stato dei diritti democratici non può chiedere ed imporre nulla agli egiziani visto che i nostri di quadri della polizia sono pure loro colpevoli autoassoltisi di torture e abusi.
L'articolo è di Infoaut(i-torturatori-di-regeni-e-quelli-di-casa-nostra )mentre a questo link(contropiano.org/altro )c'è l'appello a favore del magistrato genovese.

I torturatori di Regeni e quelli di casa nostra.

“I nostri torturatori sono al vertice della polizia, lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche. I nostri torturatori, o meglio chi ha coperto i torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all'Egitto di consegnarci i loro torturatori?". Sono le parole del Pubblico Ministero della corte d’appello di Genova Enrico Zucca pronunciate ieri in occasione di un dibattito sul caso Regeni.

Scoppia il caso. Una verità banale, suffragata da sentenze e disposizioni d’ufficio – Zucca in effetti non è che un magistrato – viene considerata una frase shock. Scatta l’indagine. Anzi, le ispezioni incrociate. “Dichiarazione inappropriata” secondo il presidente del CSM Legnini, “parole oltraggiose” per il capo della polizia Gabrielli. Nel frattempo il ministero della Giustizia tramite il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio annuncia l’acquisizione di elementi probanti per disporre un procedimento disciplinare. Si aspetta solo la punizione, insomma.

Oggi Zucca corregge il tiro: “la rimozione del funzionario condannato è una disposizione convenzionale, non una scelta politica”. Sarà, ma peggiora la sua situazione il candido magistrato. Non bastano i fatti a quanto pare per concludere che i responsabili degli abusi sui manifestanti durante il G8 di Genova 2001 si trovino ora ai vertici della polizia. Non basta, ad esempio constatare che Gilberto Caldarozzi, uno dei principali condannati del processo Diaz in cui Zucca figurava come giudice, sia stato di recente promosso al ruolo di vice direttore della Dia. I fatti non bastano, allora chi copre chi? Un pezzo qualificato della magistratura italiana copre i vertici della polizia o i poliziotti coprono i magistrati? Un bel dilemma. Ma forse non occorre sforzarsi troppo nel cercare una soluzione al rebus dell’omertà istituzionale. In fondo chiunque sia informato delle cronache politiche e sociali di questo paese ben sa quanto efficiente sia il tandem procure-questure d’Italia nel difendere se stesse e il proprio privilegio e arbitrio nell’amministrazione dei poteri pubblici.