mercoledì 11 aprile 2018

IL MEDITERRANEO PRESIDIATO DALLE NAVI DA GUERRA


Risultati immagini per guerra nel mediterraneo
Mentre la politica italiana si guarda l'ombelico e si è ancora in una fase di stallo,appena fuori casa nostra ci sono le grandi manovre militari che interessano il Mediterraneo con navi americane e francesi contro la flotta russa,mentre anche Gran Bretagna,Arabia Saudita e Israele affilano i coltelli e l'Iran sta guardingo ma pronto ad intervenire mentre la Turchia,beh lei sta già bombardando il territorio curdo posto al di sotto del confine siriano da tempo.
Nell'articolo di Contropiano(siamo-gia-in-guerra-nel-mediterraneo )l'imminente attacco statunitense con la Russia già decisa non solo a intercettare i missili di Trump ma pronti a colpire le piattaforme delle navi in mare e le basi a terra,tant'è che l'Eurocontrol(l’organizzazione europea per la sicurezza dei voli)ha già diramato l'allarme per i prossimi tre giorni per eventuali proliferazione di missili nei cieli mediorientali.
Le proteste russe fanno seguito all'intervento Onu che ha bocciato la risoluzione Usa,e gli stessi politici sotto Putin affermano che un'eventuale attacco devastante coprirebbe le prove inesistenti dei presunti attacchi chimici di Assad.
Siamo oltre l'orlo di una nuova guerra mondiale ma almeno qui da noi si fa fatica solo a pensarlo,figuriamoci ad accettarlo(vedi anche:madn la-spartizione-siriana ),ricordando che altri conflitti come quello in Iraq nel 2003(quella di Bush figlio e Blair,vedi:madn blair-bliar )e Libia,da cui partirono le varie primavere arabe,sono padri e madri del conflitto siriano.

Siamo già in guerra. Nel Mediterraneo…

di  Dante Barontini 
Siamo già in guerra, qui, alle porte di casa. E paradossalmente non sorprende che soltanto la “classe politica italiana” di tutto si occupi, meno che di questo. E’ il segno della sua irrilevanza nel contesto europeo e Nato, dove ogni decisione può esser presa senza che il governo o il parlamento di questo paese possa neanche interloquire. O accorgersene.

Siamo in guerra, perché? Di sicuro non per il sempre più presunto “uso di armi chimiche” da parte di Assad. A dirlo non è solo la logica (nell’area di Douma erano rimasti asserragliati pochi gruppi legati all’Isis – teoricamente nemici dell’Occidente – e dunque era militarmente e politicamente insensato usare armi proibite per risolvere un problema ormai secondario), ma quello che è avvenuto ieri all’Onu, nel Consiglio di Sicurezza.

Gli Stati Uniti hanno presentato una risoluzione per creare un nuovo meccanismo per indagare sui presunti attacchi chimici di Douma. Con l’astensione di Cina e Bolivia e il veto russo, la risoluzione è stata respinta. Così come una risoluzione russa che chiedeva l’invio di truppe Onu nella zona, con il compito anche di verificare se l’uso di armi chimiche ci fosse stato davvero.

La cosa “strana” è che in Siria è già presente un gruppo di esperti dell’”Organizzazione delle Nazioni Unite per la prevenzione delle armi chimiche” (UN-OPCW). Ma questo gruppo non ha fin qui segnalato nulla a carico delle truppe di Assad.

Di fatto, gli Stati Uniti volevano poter scegliere un nuovo gruppo di “esperti”, garantendosi dei report sufficientemente ambigui da giustificare un attacco a un paese ai sensi del Capitolo VII della Carta Onu, che permette anche operazioni militari contro lo stato sottoposto a “capitolo VII”.

La copertura legale non è stata insomma ottenuta, al contrario di quando fu spedito Colin Powell a sventolare una boccetta che avrebbe dovuto contenere antrace (ed era falso), ma questo non ha fermato affatto i preparativi di guerra da parte degli Usa e degli alleati locali (Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita, Israele). Navi da guerra americane e francesi hanno preso a dirigersi verso la costa orientale del Mediterraneo e aerei di Mosca hanno sorvolato a bassa quota queste navi per far capire che il gioco sta diventando molto rischioso.

Una conferma indiretta ma chiarissima è arrivata anche da Eurocontrol, l’organizzazione europea per la sicurezza dei voli, che ha allertato tutte le compagnie aeree civili con voli sul Mediterraneo orientale per via di “possibili attacchi missilistici sulla Siria nelle prossime 72 ore”. In particolare, Eurocontrol ritiene probabili blackout sulle trasmissioni radio, provocati dagli aerei speciali Usa, che abitualmente usano questa tattica prima si bombardare, per incontrare una resistenza antiaerea meno efficace e coordinata.

Anche al livello delle cancellerie lo schema è ormai chiarissimo, con la Francia del finanziere Macron in prima fila: la Francia “annuncerà le sue decisioni nei prossimi giorni. In nessun caso le decisioni che prenderemo avrebbero tendenza a colpire alleati del regime o colpire chicchessia, ma saranno mirate alle capacità chimiche del regime“. Attacco militare sicuro, insomma, facendo attenzione a non bombardare iraniani e russi.

Il margine di rischio è però molto più ampio di quanto un cretino che crede ai militari può pensare. Da giorni i russi ricordano che sono legati da trattati di mutua assistenza col regime di Assad – che ha concesso in cambio le basi di Tartus e Latakia – e dunque che sarebbero costretti a reagire a un attacco, anche se mirato soltanto contro obiettivi governativi.

Specie se, come di deve dedurre da alcune frasi smozzicate pronunciate da addetti stampa e generali, tra gli obiettivi ci fosse lo stesso Assad (la difesa del cui palazzo è stata in questi giorni rafforzata con diverse batterie contraeree). L’ambasciatore di Mosca in Libano, per esempio, già una settimana fa aveva precisato che “saranno abbattuti i missili in arrivo e saranno prese di mira le piattaforme di lancio”. Tradotto: navi ed aerei – ed eventualmente basi israeliane – che dovessero partecipare all’attacco diventerebbero a loro volta obiettivi.

Una serie di minacce e contro-avvertimenti che disegna un’escalation apparentemente inarrestabile, con almeno cinque potenze nucleari coinvolte (Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna, Israele) e diversi paesi produttori petroliferi nel raggio stretto del conflitto (la stessa Siria, Iran, Arabia Saudita ed emirati del Golfo).

Se ci fosse un “governo del mondo” avrebbe da tempo tirato il segnale d’allarme per frenare questo treno in corsa verso il baratro.

Ma non c’è.

Al vertice della superpotenza Usa, invece, c’è una baraonda incontrollata, con il presidente Trump sotto inchiesta giudiziaria, supportato da uno staff di generali e “falchi” in preda a delirio di onnipotenza. Ovvero, che non si rende conto – o non accetta – di non essere più nella posizione di forza conquistata negli anni ’90, quando non era rimasto nessun antagonista di pari livello militare con gli Usa e dunque si poteva decidere qualsiasi cosa nella certezza di non trovare opposizione, ma solo complici servizievoli.

Nell’ordine. Trump medita di “licenziare” il superprocuratore Muller, che sta indagando sul cosiddetto Russiagate (l’ipotesi è che lo stesso Trump si sia fatto “aiutare” da Mosca nella sua corsa alla presidenza Usa; quasi una barzelletta, nel quadro attuale) e che solo due giorni fa ha inviato l’Fbi a perquisire lo studio e l’abitazione del suo avvocato, Michael Cohen, sequestrando materiale comprovante – invece o anche – il versamento di centinaia di migliaia di dollari a una pornostar e una “coniglietta” di Playboy perché tacessero sui loro rapporti con il non ancora presidente.

Un misto di colpi bassi istituzionali – è come se Craxi o Andreotti avessero voluto licenziare il pool di “mani pulite” o la procura antimafia di Palermo, quando indagavano su di loro – storielle scollacciate, interessi individuali o di gruppo che farebbero ridere, se non avvenissero dentro e intorno alla Casa Bianca. Dunque dentro o intorno alla valigetta dei “bottoni” che scatenano la guerra.

E in effetti sono molti gli analisti che avvertono del rischio che un presidente accerchiato e ridicolizzato possa scegliere la via breve della guerra per sollevare uno scontatissimo “afflato patriottico”, tale da mettere la sordina, almeno temporaneamente, a critiche ed inchieste.

Una tentazione che i peggiori alleati possibili – Netanyahu e i sauditi, per obiettivi diversi ma tatticamente convergenti – solleticano apertamente.

Ma tutto questo è analisi. Le cose stanno già precipitando, se non interverrà qualche interesse decisamente superiore (un crollo monstre dei mercati finanziari o qualcosa di potenza equivalente) a fermare una discesa verso decisioni da cui non si può può più tornare indietro.

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La guerra americana in Siria? Sarà il disastro definitivo dell’Occidente in Medio Oriente

Pressato da sauditi e Pentagono molto più che dalle armi chimiche, Trump minaccia l’intervento. Ora ha due opzioni: o raid limitati o una (rischiosa) operazione su larga scala. Ma più che una nuova guerra servirebbe capire i problemi del Medio Oriente

Alberto Negri – L’Inkiesta

C’è una sorta di “cupio dissolvi” nella guerra siriana.

Gli Stati Uniti minacciano un intervento pochi giorni dopo che lo stesso presidente americano Donald Trump aveva annunciato che si sarebbe ritirato al più presto dalla Siria “lasciando che altri se la sbrigassero”. Non solo. Trump aveva risposto sardonicamente al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – il maggiore cliente di armi Usa – che gli aveva chiesto di colpire Assad: «Se i sauditi ci tengono tanto a far cadere il regime che se la paghino loro questa guerra».

Poi, qualche giorno fa, è entrato in campo Israele che ha bombardato una base militare in Siria facendo vittime tra consiglieri militari iraniani. Israele, gratificato dalla dichiarazione Usa di Gerusalemme capitale, per gli Usa di Trump è il vero poliziotto della regione, quello che indica chi e cosa bisogna colpire: il parere dello stato ebraico e quello dei generali del Pentagono, spaventati da un confuso ritiro dalla Siria, ha contato quanto e di più dei morti a Douma, uccisi da presunte armi chimiche sui cui mancano prove concrete e indipendenti.

Trump ha due opzioni se imbocca la strada militare. Una è compiere raid limitati, come già fece un anno fa in un contesto simile lanciando 59 missili su una base siriana. L’altra è quella di colpire le difese siriane a fondo e anche l’aviazione di Assad con un intervento su larga scala che però rischia di incappare in fatali “incidenti” militari o di trasformarsi uno scontro diretto con Mosca, che ha già annunciato di dovere appoggiare il regime di Damasco in base agli accordi militari che hanno concesso ai russi basi aeree e navali per alcuni decenni.

L’aspetto più sconcertante di questo atteggiamento americano è che in Siria gli Usa non sono intervenuti neppure per proteggere i loro alleati curdi siriani colpiti dall’avanzata della Turchia che li ha cacciati da Afrin facendo 200 morti: eppure i curdi sono stati impiegati dagli Usa per combattere il Califfato e conquistare Raqqa, un tempo capitale di Al Baghadi e dell’Isis. Gli Usa hanno sul campo oltre duemila soldati schierati sulla prima linea curda di Manbij: non solo non hanno mosso un dito ma Trump ha anche congelato 200milioni di dollari di aiuti ai curdi siriani.

Gli Stati Uniti mandano messaggi assai ambigui, se non peggio, devastanti e destabilizzanti. Fermo restando che appare improbabile che Assad abbia usato armi chimiche in un’area dove ormai i ribelli delle forze jihadiste di Jaish Al Islam avevano raggiunto un accordo con Damasco per ritirarsi, emerge con sempre maggiore chiarezza la dipendenza di Washington dai suoi rapporti con Israele e con l’Arabia Saudita, che tra l’altro ha sostenuto a piene mani, cioè finanziandoli, i jihadisti anti-regime. In realtà sin dal 2011 il vero scopo della guerra per procura in Siria è l’Iran, il maggiore e storico alleato di Damasco. Questo è il primo obiettivo di israeliani e sauditi. Israele vuole spezzare la continuità della Mezzaluna sciita, l’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah, proprio perché la guerriglia sciita libanese rappresenta l’insidia maggiore per il governo di Tel Aviv.

I sauditi si confrontano da sempre nel Golfo con l’Iran e adesso non riescono a vincere la guerra in Yemen, nel cortile di casa, contro i ribelli Houthi sciiti, nonostante bombardamenti a tappeto sui civili che in Occidente nessuno prende in considerazione. Ma chi ha il coraggio di protestare contro i sauditi, maggiori acquirenti di armi occidentali e investitori di primo piano?

Non ci vuole uno stratega per immaginare che i gruppi jihadisti, appoggiati da Riad, stiano tentando in ogni modo di trascinare gli Stati Uniti sul campo di battaglia siriano.

In questo quadro rientra il gioco della geopolitica regionale che ha visto l’Occidente “perdere” la Turchia. Se è vero che adesso Erdogan usa le stesse parole di Trump contro Assad, non si può certo ignorare che la Turchia, membro storico della Nato, è venuto a patti con Mosca e Teheran, cioè i due nemici dell’Alleanza Atlantica. Questo ha sancito il recente vertice di Ankara. In poche parole a Washington e alla Nato sanno che hanno perso, per il momento, la partita siriana: per avere la rivincita forse più che una nuova guerra servirebbe una maggiore intelligenza e comprensione dei problemi del Medio Oriente. Ma non si può pretendere tanto da una superpotenza che già con la guerra in Iraq nel 2003 e poi con quella in Libia del 2011, con la complicità decisiva della Francia, ha gettato il Mediterraneo “allargato” nel caos.

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